mercoledì 30 settembre 2009

Magister, Ruini e il Progetto culturale

Non so se ricordate, nel mio post del 21 settembre ponevo la domanda: «Qualcuno sa dirmi che cosa sta succedendo?». Ebbene, ricevetti immediata risposta, il giorno stesso, da Sandro Magister, che pubblicò un articolo sul suo sito www.chiesa, dove spiegava la posta in gioco: il Progetto culturale promosso dal Card. Ruini. In quell’articolo Magister cercava di dimostrare la vitalità di tale Progetto contro chi lo dava per morto. Le prove di tale vitalità: «una proposta al paese su “l’emergenza educativa”, una nuova scuola di teologia applicata a una società “plurale”, un convegno internazionale su “Dio oggi”».

Questo avveniva il 21 settembre, giorno in cui doveva iniziare la riunione del Consiglio permanente della CEI. Probabilmente, Magister deve essersi reso conto che nella Conferenza episcopale non c’è poi tutto questo entusiasmo per il Progetto culturale; ed ecco che ieri è tornato alla carica con un’intervista pubblicata sul Foglio. Tale intervista risulta ancora piú esplicita dell’articolo di una settimana fa. Ora, a poco a poco, incominciano a delinearsi i contorni della partita in corso.

A prima vista, le forze in gioco, secondo Magister, sarebbero le seguenti: da una parte la CEI, dall’altra la Segreteria di Stato; da una parte Avvenire, dall’altra L’Osservatore Romano. Aggiungo io: da una parte Magister, dall’altra Vian (si vedano le scaramucce da me riportate nel succitato post del 21 settembre).

Magister non fa nulla per nascondere la sua insofferenza verso la nuova linea adottata dal Card. Bertone, «linea “concordataria”, fatta di buon vicinato, di rapporti istituzionali cortesi, utilizzata anche dove i concordati non ci sono proprio», una linea secondo Magister, non «all’altezza delle linee maestre dei due grandi pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI». Per dimostrare la sua tesi, Magister allarga lo scenario: l’attuale politica della Segreteria di Stato non solo non è condivisa dalla Conferenza episcopale italiana, ma neanche da quella americana e neppure dal Card. Zen.

Magister sa il fatto suo; non parla a vanvera. I fatti a cui fa riferimento non possono in alcun modo essere negati. Che con l’avvento di Bertone alla Segreteria di Stato ci sia stato un cambiamento di rotta, è abbastanza evidente. Che questo possa destare qualche perplessità, è comprensibile. Mi sembra altrettanto legittimo che non solo i giornalisti, ma anche dei Vescovi possano avanzare delle riserve. Anche perché bisogna riconoscere che, in qualche caso, sono state prese posizioni piuttosto discutibili. Magister non lo rammenta, ma in questo quadro va inserito anche l’increscioso incidente dell’Osservatore Romano con l’Arcivescovo di Recife, a proposito della bambina brasiliana costretta ad abortire. In quell’occasione dovette intervenire la Congregazione per la dottrina della fede a chiudere il caso.

Tutto questo è vero. Però lo stesso Magister è costretto ad ammettere che la partita che si sta giocando è, in fondo, tutta italiana. Senza scomodare la Segreteria di Stato e le sue innegabili tensioni con gli episcopati in diverse parti del mondo, va serenamente riconosciuto che il conflitto è interno alla Chiesa italiana. Non sono un vaticanista, ma mi sembra piuttosto evidente che il vero problema sia l’uscita di scena del Card. Ruini e la sorte del sua creatura, quel Progetto culturale attraverso il quale Ruini pensava di rimanere in qualche modo protagonista anche del “dopo-Ruini”.

Personalmente trovo del tutto normale che una successione provochi qualche scossa di assestamento. Da che mondo è mondo, in qualsiasi ambiente, è sempre avvenuto. Soprattutto quando un determinato ruolo è stato ricoperto dalla stessa persona per tanti anni, e diciamo pure con un certo successo, è inevitabile che l’eredità si riveli alquanto pesante per chi è chiamato a succedergli. Per quanto il successore scelga una linea di continuità, è normale che egli abbia un carattere diverso, adotti uno stile diverso e debba affrontare problemi diversi. Se poi il predecessore aveva una personalità forte, capace di riscuotere l’unanimità e di mettere a tacere eventuali voci discordi, è ovvio che, non appena egli viene sostituito, quell’unanimità improvvisamente scompaia, e ciascuno abbia da dire la sua, dando l’impressione che la CEI sia diventata un’armata Brancaleone.

Ho l’impressione che stia succedendo in Italia quanto, qualche anno fa, accadde nelle Filippine, alla morte del Card. Sin. Fino ad allora sembrava che ci fosse un episcopato compatto (tanto è vero che fu capace di far dimettere due capi di Stato); ora invece ogni Vescovo sembra andare per la sua strada. Ma so per certo che durante la gestione Sin, molti Vescovi non erano affatto d’accordo con lui; solo, non avevano la possibilità (o il coraggio) di esprimere il loro dissenso. Anche in Italia sta avvenendo qualcosa di simile: probabilmente sta emergendo l’insofferenza di molti Vescovi per la linea di Ruini; una linea che allora non poteva essere messa in discussione, ma che ora non si vede il motivo di continuare a seguire.

E veniamo al Progetto culturale. È ovvio che, finché c’era Ruini, esso passava come una scelta della Conferenza episcopale (mentre in realtà era una iniziativa del suo Presidente), e nessuno, per quanto discorde, si permetteva di criticarlo. Ora che Ruini non c’è piú, questo malessere probabilmente sta venendo a galla; e, sebbene per il momento non ci sia un esplicito rifiuto, lo si ignora, lasciando che se ne occupi personalmente il promotore. Assai significativo quanto afferma Magister: «Il Progetto culturale è vivo e continua a operare. Ma c’è, allo stesso tempo, un’inspiegabile freddezza a livelli anche alti della gerarchia cattolica, rispetto a queste iniziative ... Nella stessa prolusione del cardinale Bagnasco ai lavori dell’ultimo consiglio permanente della Cei, le parole “Progetto culturale” non sono state mai pronunciate, nonostante sia noto che proprio il Progetto culturale è uno dei bersagli fondamentali della tumultuosa operazione condotta per defenestrare Boffo. Nessun accenno nemmeno al convegno su Dio, che pure la Cei ha promosso».

Tento di dare una spiegazione. Probabilmente, quando Ruini è andato in pensione, per non farlo sentire messo da parte, e anche come forma di riconoscimento per quanto aveva fatto per la Chiesa italiana, gli si era voluto dare questo “contentino”: Continua ad occuparti del Progetto culturale; in fondo, si tratta di una tua creatura. E forse sta qui l’errore, che è all’origine di tutte le inquietudini odierne. Sí, perché il Progetto culturale non è un giocattolo; o meglio, è un giocattolo estremamente costoso: pensate che certe iniziative non costino nulla? Il Progetto culturale è una macchina mangia-soldi, con risultati peraltro ancora tutti da verificare. Penso (sia ben chiaro, si tratta di una mia supposizione; non ho alcuna entratura negli episcopi d’Italia) che tutto questo incominci a infastidire diverse Eccellenze. Finché Ruini era Presidente della CEI, non si poteva dire nulla; ma ora che lui non è piú nulla, perché continuare a buttar via soldi, senza vederne l’utilità? Oltre tutto, molti Vescovi devono cominciare a temere che da un giorno all’altro qualcuno possa mettere in discussione il meccanismo dell’8 per mille. L’attuale utilizzo dell’8 per mille (Avvenire, Sat2000, Progetto culturale) corrisponde alle finalità per cui esso è stato istituito? Ricordo che, quando ero rettore della Querce, posi espressamente anche a un certo livello la questione di un eventuale finanziamento “interno” delle scuole cattoliche, attingendo all’8 per mille. Fu risposto categoricamente che ciò non era possibile, perché non rientrava fra i suoi obiettivi...

Per cui, tutto sommato, piuttosto che parlare di un possibile conflitto fra CEI e Segreteria di Stato, forse sarebbe piú esatto dire che la Santa Sede si sta facendo in questo momento interprete dei sentimenti di una parte dell’episcopato italiano. Quando, il 9 settembre scorso, il Direttore dell’Osservatore Romano, alla presenza del Card. Ruini, paragonava il Progetto culturale all’Araba Fenice, probabilmente dava voce a un sentimento piú diffuso di quanto non sembri, anche fra i Vescovi.

Io, comunque, una proposta ce l’avrei per venir fuori da questo pasticcio. Vediamo se il Card. Bagnasco la prenderà in considerazione: perché non nominare Sandro Magister Direttore di Avvenire? Allora sí che ci sarà da divertirsi...

martedì 29 settembre 2009

Melloni su Benedetto XVI

L’altro giorno Alberto Melloni ha rilasciato una breve intervista a La Stampa a proposito del Papa. Solo quattro domande. Sulla prima risposta (la domanda riguardava il messaggio lanciato da Benedetto XVI a Praga) si potrebbe pure convenire. Secondo Melloni, Papa Ratzinger a Praga ha riaperto la questione, da tempo tramontata, delle radici cristiane dell’Europa. Questione tramontata, perché l’aveva già posta, senza successo, Giovanni Paolo II. «Ora Ratzinger — sostiene Melloni — ci torna sopra per inerzia». Può darsi che abbia ragione.

Personalmente, mi chiedo anch’io quale possa essere l’utilità di tale richiamo alle radici cristiane dell’Europa. Che l’Europa abbia radici cristiane è un dato di fatto, che nessuno può negare: basta guardarsi intorno, basta studiare la storia, basta conoscere la cultura europea: non si può far finta di non vedere che l’Europa è figlia del cristianesimo. Ma il problema, almeno per noi cristiani, non è tanto quello di riconoscere un dato storico; il problema è che questa Europa, dalle radici cristiane, non è piú cristiana. Questo è il problema di cui, come cristiani, dobbiamo prendere coscienza. L’unica preoccupazione di un cristiano dovrebbe essere non che da qualche parte sia scritto che l’Europa ha radici (giudeo?) cristiane, ma che l’Europa sia effettivamente cristiana. Orbene, c’è da chiedersi: rammentare all’attuale Europa totalmente secolarizzata che essa ha delle radici cristiane è sufficiente perché essa ridiventi cristiana?

Se devo essere sincero, mi ero dimenticato che Giovanni Paolo II era stato per ben tre volte a Praga. Ebbene, quale è stato il risultato di queste tre visite del Papa che riempiva le piazze, del grande comunicatore che trascinava le folle, del leader carismatico che piaceva a i giovani? Che Praga è, a quanto pare, la città piú atea d’Europa. Se non c’è riuscito Wojtyla, col suo carisma, ci riuscirà Ratzinger, col suo stile discreto? Staremo a vedere. Io, per il momento, mi permetto di sollevare qualche dubbio. Perché?

Come ho già scritto in altre occasioni, per me, all’apostasia non c’è rimedio. Essa è uno dei peccati contro lo Spirito Santo (“impugnare la verità conosciuta”); e noi sappiamo che per tali peccati non esiste perdono. Bisogna solo aspettare che questa Europa finisca da sé e che dalle sue ceneri nasca una nuova Europa. In questo momento ciò che importa è che la Chiesa — piccolo gregge, “resto d’Israele” — tenga accesa la fiamma, conservi la fede; cosicché, al momento opportuno possa costituire il seme della rinascita. Ma credo che Ratzinger non sia estraneo a tali riflessioni. Solo che, come Papa, non può farsene interprete piú di tanto, essendo esse politicamente scorrette.

Come vedete, non escludo che in certi casi si possa discutere su ciò che il Papa dice o fa. Anzi, personalmente, io muoverei un ulteriore appunto alla visita di Benedetto XVI nella Repubblica Ceca. Capisco che quest’anno ricorre il XX anniversario della caduta del Muro, e quindi le rievocazioni diventano pressoché inevitabili; ma chiedo: è proprio necessario continuare a parlare di un fenomeno che appartiene al passato? Quale significato può avere condannare oggi il comunismo? Il comunismo andava condannato quando esisteva, non oggi che è morto e sepolto. Troppo comodo scaricare la colpa dell’ateismo e dell’indifferentismo attuali su un regime che non esiste piú da vent’anni. Non sarà per caso responsabile di tale situazione il sistema in cui noi oggi viviamo? Ho l’impressione che il passato diventi spesso un alibi per non parlare del presente: continuiamo a condannare nazismo e comunismo, ma facciamo fatica a esprimere un giudizio critico sul presente, come se vivessimo nel migliore dei mondi possibili. Spesso non ci rendiamo conto (o facciamo finta di non renderci conto) dei limiti del presente e continuiamo a deplorare regimi che la storia ha già definitivamente giudicato. Faccio un esempio: come mai la Chiesa non si esprime in maniera netta sul Trattato di Lisbona (anzi, a quanto pare, i Vescovi irlandesi hanno invitato i loro fedeli a votare a favore della sua ratifica...). Si dirà: non è compito della Chiesa far politica. Bene, se è politica occuparsi del presente, è politica anche esprimere giudizi sul passato; se, al contrario, possiamo esprimere giudizi morali sul passato, possiamo farlo anche nei confronti del presente.

Se, come dicevo, sulla prima risposta si può anche convenire con Melloni, sul resto dell’intervista non si può in alcun modo essere d’accordo con lui. Il giudizio che egli esprime su Benedetto XVI, oltre a essere ingeneroso e offensivo, è totalmente sballato. «Il Papa è un teologo, segue rigidamente la sua linea di pensiero». Vuole dire: Ratzinger è un intellettuale, che vive fuori del mondo, prigioniero dei suoi pensieri, incapace di cogliere la realtà. «Della situazione italiana Ratzinger ha una visione molto limitata, non personalizza il nodo-Italia». Cosa di per sé possibile per uno straniero; ma non è questo il motivo, secondo Melloni; il motivo vero è il suo approccio intellettualistico: «Vede intellettualmente uno scenario in cui si agitano delle culture, delle tensioni. Non vede persone, ma prospettive».

Mi chiedo di chi stia parlando Melloni, se di Benedetto XVI o di sé stesso. Sí, perché quelle parole si attagliano perfettamente a chi le pronuncia: è Melloni l’intellettuale che vive fuori del mondo, applica i suoi schemi mentali alla realtà che lo circonda, è incapace di vedere persone (anche Papa Ratzinger è una persona), ma solo prospettive. Melloni non lo dice espressamente, ma è quel che sottintende: secondo lui, Benedetto XVI è un ideologo. Ma non si accorge che, se in tutta questa storia c’è un ideologo, questo è proprio lui.

Oltre tutto, mi sembra che non sia neppure coerente nella sua sbrigativa descrizione di Papa Ratzinger: da una parte lo considera un intellettuale che vive fra le nuvole; dall’altra, un cinico opportunista: «Il suo ragionamento è lineare: “Berlusconi è il premier, ascolta le nostre sollecitazioni, quindi non c’è ragione per non trattarlo bene”. Il resto sono problemi di carattere dottrinario ... Per il governo, Ratzinger è un cliente complicato perché è un negoziatore che non si arresta nelle sue richieste». Non mi sembra questa la descrizione esatta di un intellettuale che vive rinchiuso nelle sue astrazioni.

A parte il fatto che non ce lo vedo proprio Papa Ratzinger nelle vesti del “negoziatore” insaziabile; ho l’impressione che proprio su questo punto Melloni dimostri, da buon ideologo, di non aver capito nulla di Benedetto XVI. Sembrerebbe che l’unica preoccupazione del Papa sia quella di “difendere i principi non negoziabili”. Ancora una volta, dunque, un uomo che vive di astrazioni e che riduce il cristianesimo a una questione di “principi”. Basterebbe aver letto qualche scritto del Card. Ratzinger o anche solo ascoltare qualche intervento di Benedetto XVI per capire che per lui il cristianesimo non è affatto una questione di principi, ma è, innanzi tutto, un’esperienza, è vita. Ma come può cogliere certe sfumature un uomo accecato dall’ideologia, prigioniero dei suoi schemi mentali? È proprio vero, Melloni non vede persone, ma prospettive.

lunedì 28 settembre 2009

Chiesa e impresa #2

Ancora alcune interessanti riflessioni di David:


«Torno un’ultima volta sul discorso dell’impresa per alcune considerazioni... Ho seguito la vicenda delle nomine allo IOR e devo dire che mi sembra stia andando tutto bene. Non conosco personalmente Gotti Tedeschi, ma ho avuto modo di leggere alcuni suoi scritti, compreso il bel saggio Denaro e Paradiso.

Permettimi alcune considerazioni: la Chiesa ha da sempre un buon rapporto con le banche presenti sul territorio; alcune addirittura hanno un rapporto — mi si passi il termine — “organico” con la Chiesa, nel senso che sono dirette da cattolici da comunione settimanale, sono ispirate da principi cristiani fin negli statuti e spesso hanno sacerdoti, religiosi e laici cattolici negli organi direttivi. Non parlo solo di piccole casse rurali né di un colosso — ormai “secolarizzato” — come il San Paolo di Torino. Mi riferisco alle Casse di Risparmio, alle Banche Cooperative e a tutte quelle centinaia di realtà locali molto ben coordinate fra di loro, che costituiscono circa la metà del banking in Italia. A dir poco la metà... È certamente grazie a loro se da noi sono arrivati solo gli spifferi della immane tempesta finanziaria che ha fatto a pezzi i castelli di carte di banker e investment banker anglosassoni e nord-europei, essendo i “nostri” vaccinati da generazioni contro la tentazione del guadagno facile, staccato dal territorio e dal “fare”. Permettimi di spezzare una lancia a favore anche di Fazio, il penultimo governatore della Banca d’Italia e il primo cattolico praticante a guidare la nostra banca centrale: la sua “Italietta”, cosí sonnolente e poco aperta alle “innovazioni” della finanza anglosassone, ha retto molto bene all’urto... Meglio di altri, senza dubbio. Ora, lungi dal trionfalismo, continuo a sperare che le banche cattoliche si rendano protagoniste — con coraggio e lungimiranza — di questa lunga, difficile stagnazione che potrebbe durare anni e anni e che solo la stampa continua a chiamare “ripresa”. Sí, perché il problema — almeno secondo me — non sono le banche, ma le imprese. Quello che manca alla Chiesa non sono né i rapporti col mondo del credito né quelli con i lavoratori: su entrambi i fronti, la Catholica è messa meglio di chiunque altro al mondo. Mancano invece i rapporti — non solo istituzionali, intendiamoci — col mondo del “fare”: con le imprese industriali, dei servizi, del turismo, persino dell’agricoltura, un tempo la grande alleata dei papisti. Lasciando da parte medicina, comunicazione e formazione, perché si tratta di settori molto particolari, viene da dire che la Chiesa cattolica non coltiva rapporti saldi con le imprese.

Per esempio, sullimmigrazione ha un atteggiamento miope del tipo: Non vogliamo islamizzare l’Italia, ma gli immigrati vanno accolti, devono potersi integrare ecc. Parlo di miopia, perché vede il fenomeno (l’immigrazione), ma non ne coglie il dramma, se non quando lo può osservare da vicino e in modo eclatante (tragedie in mare, sfruttamento ecc.). Ma c’è un altro dramma, che si trova — passami il termine sessantottino — a monte di questo: sono le nazioni di origine dei flussi migratori, che vengono depredate di tecnici, ingegneri, agronomi, insegnanti e contabili per farne operai senza specializzazione, raccoglitori di pomodori, colf e badanti... La Chiesa potrebbe invece coordinarsi con le imprese dirette dai propri figli che delocalizzano per intervenire tutti insieme nei Paesi stranieri con credito, formazione, know-how, progetti... Se è vero che sotto molti aspetti le migrazioni sono una benedizione, per altri è una minaccia alle chance di emergere dei Paesi. La Chiesa lo potrebbe fare attraverso le diocesi, le conferenze episcopali, i movimenti cattolici o anche laici con capacità organizzative. La Comunità di Sant’Egidio o Comunione e Liberazione hanno già dimostrato di avere i mezzi per agire in modo concreto e positivo...

Il buon rapporto con le banche non deve essere un fine, ma uno strumento: le imprese hanno da imparare dalla Chiesa come si progetta nel lungo periodo, senza puntare al profitto immediato e facile. La crisi di molti distretti industriali in Italia, come quello pratese, sta proprio in questo: è venuto meno l’entusiasmo, che l’imprenditore agli inizi ha e che lo rende simile al missionario, al quale anche il solo fatto di essere ben accolto da non battezzati riempie il cuore di speranza. Sono passate le generazioni, i padri e i nonni, dopo aver avviato l’azienda fra sacrifici e trepidazione, ora hanno passato la mano ai figli, che sono cresciuti senza sofferenze e sono impreparati alle sfide; puntano perciò al guadagno veloce e sicuro, al reddito e alla bella vita. Un po’ come quelle Chiese dell’Africa e del Medio Oriente che — passate le persecuzioni — si dedicarono alle speculazioni filosofiche e teologiche e disprezzarono quanti erano restati fedeli alla fede semplice dei Padri e l’attività missionaria: arrivò l’Islam e di loro non restarono che poche enclave. Quando restò qualcosa... Dalla Chiesa l’imprenditore ha da imparare come — pur con tutte le umane debolezze — un’impresa possa durare nei secoli, restando sempre fedele a sé stessa. La Chiesa può fare molto, non solo come carità missionaria e assistenza ai bisognosi ma anche cercando di coinvolgere le imprese in progetti ispirati alla fede.

“Voi siete il sale della terra ... la luce del mondo ... se il sale perdesse il suo sapore, a cosa servirebbe?” Non era rivolto anche a chi produce, a chi commercia, a chi fornisce servizi alla società quanto detto dal Signore? Senza lo spirito cristiano e senza perseguire progetti ispirati dalla fede, a cosa serve l’impresa? Perché non pensiamo a quale sia la differenza fra una multinazionale che pianta e raccoglie frutta in un Paese africano e chi — oltre a dare ai lavoratori del loro secondo equità — investe anche per quel territorio, nella formazione, nello sviluppo e nella promozione umana? Osserviamo come si muovono gli investitori cinesi o quelli dei Paesi anglosassoni in Sud America o in Africa e domandiamoci se un giorno il Signore — che pure è misericordioso — ci chiederà conto anche di questo: “Ero prigioniero e voi non mi avete visitato”...».


Non mi intendo di banche, per cui mi fa molto piacere leggere quanto scrive David a tale proposito. Anche se non posso negare una certa apprensione per l’attuale situazione, che ritengo drammatica per tutti. Se il sistema crolla, penso che inevitabilmente tutti vi saranno coinvolti.

Mi sembra, ancora una volta, estremamente interessante il discorso sul rapporto fra Chiesa e impresa. Evidentemente, David se ne intende... Personalmente penso che il discorso sull’accoglienza e quello sulla delocalizzazione non siano alternativi, ma complementari. Anche perché noi abbiamo bisogno di questi immigrati. Ma è vero che queste masse di lavoratori, spesso qualificati, che lasciano la loro patria per andare in Europa e in America a fare i lavori piú umili, rappresentano un impoverimento notevole dei loro paesi in termini di risorse umane (anche se, allo stesso tempo, esse contribuiscono in maniera determinante allo sviluppo dei loro paesi con le loro rimesse finanziarie).

Di entrambi i problemi (migrazioni e delocalizzazione) si è occupata la recente enciclica Caritas in veritate. Nel mio post del 9 luglio scorso elencavo queste due tematiche fra i punti piú deboli dell’enciclica (in quanto meritevoli, secondo me, di un approfondimento ulteriore, che però — va riconosciuto — non poteva essere fatto nel contesto di un’enciclica). In particolare ciò che l’enciclica dice a proposito della “delocalizzazione” (in inglese, outsourcing) è stato fortemente criticato nei paesi beneficiari di tale dislocazione del lavoro, quasi che il Papa si sia fatto interprete degli interessi dell’“aristocrazia del lavoro bianco”, dimenticandosi degli interessi dei popoli del terzo mondo. L’enciclica, infatti, al n. 40, invita a tener conto non soltanto degli interessi degli azionisti (shareholders), ma anche di quelli degli stakeholders (“i lavoratori, i fornitori, i consumatori, l’ambiente naturale e la piú ampia società circostante”). Effettivamente, a una lettura superficiale, l’enciclica potrebbe dare l’impressione che sia preoccupata esclusivamente dei posti di lavoro che si perdono in Europa e in America, e poco interessata ai benefici che la delocalizzazione di fatto apporta ai paesi del terzo mondo. Ma, se si legge attentamente il testo, ci si accorge che la Chiesa non è affatto indifferente alle sorti dei popoli piú poveri.

Probabilmente una via d’uscita da questo “conflitto di interessi” potrebbe essere proprio quella di invitare gli imprenditori, piú che a delocalizzare (cosa che inevitabilmente danneggia i lavoratori del primo mondo), semplicemente a investire nel terzo mondo (con beneficio dell’impresa e delle popolazioni piú povere).

D’accordissimo con David sulle cause della crisi delle imprese italiane (ma non solo...). Queste non sono andate in crisi solo a causa della negativa congiuntura internazionale (certo, anche questo), ma soprattutto per ragioni “culturali”: il cambio di mentalità intervenuto nelle nuove generazioni (frutto, chiaramente, di una “rivoluzione culturale” non certo fortuita, ma deliberata). Quando lo scopo della vita è il guadagno facile e immediato, quando non si ha la consapevolezza che il successo di un’impresa è frutto di fatica e di sacrificio, è inevitabile che l’impresa vada presto in crisi.

Vorrei terminare con un esempio che ha suscitato la mia ammirazione in questi anni trascorsi nelle Filippine. L’uomo attualmente piú ricco in quel paese si chiama Henry Sy. È nato in Cina nel 1924. A causa della povertà, all’età di 12 anni, si trasferí a Manila con suo padre, aiutandolo in una botteguccia di alimentari (sari-sari store), che andò distrutta durante la seconda guerra mondiale. Aprí quindi un negozio di scarpe... Ora è proprietario di una catena di oltre trenta centri commerciali (SM Malls). E questo in un momento di crisi per l’economia internazionale. La sua filosofia: le crisi sono un’opportunità. Non solo lui è diventato l’uomo piú ricco delle Filippine, ma contemporaneamente ha dato lavoro a migliaia di persone, contribuendo allo sviluppo del paese che lo ha accolto. Tali risultati non sono certo il prodotto del caso, ma il frutto di costante impegno e sacrificio. Se Mr. Sy avesse cercato il guadagno immediato, forse a quest’ora starebbe ancora vendendo scarpe...

domenica 27 settembre 2009

XXVI domenica "per annum"

Anche i discepoli di Gesú — compreso Giovanni, il “discepolo prediletto” — avevano la mentalità della setta, del partito: «Maestro abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Per loro non era importante che quel tale scacciasse i demoni nel nome di Gesú, ma che non facesse parte del loro gruppo.

Per Gesú la mancata appartenenza al gruppo dei discepoli è ininfluente; ciò che conta è che quegli operi nel suo nome: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi».

Quest’ultima frase potrebbe apparire in contraddizione con una simile affermazione di Gesú che troviamo nel vangelo di Matteo: «Chi non è con me è contro di me» (Mt 12:30). In realtà, se ben riflettiamo, ci accorgeremo che non esiste alcuna contraddizione. In Matteo, Gesú sta parlando del rapporto con la sua persona, che risulta indispensabile. E infatti nel caso del vangelo odierno, l’adesione a Cristo da parte dell’esorcista c’era (scacciava i demoni nel suo nome); ciò che mancava era l’appartenenza al gruppo dei discepoli, che, a quanto pare, risulta non indifferente, ma certamente secondaria, perlomeno su un piano formale. Dico: “su un piano formale”, in quanto proprio qui si pone il problema della vera natura della Chiesa: essa non è una setta, non è un partito, non è un’associazione che richiede un’iscrizione. Essa è la famiglia di tutti i credenti in Cristo: chiunque può farne parte.

Nei suoi confronti è sufficiente un atteggiamento di “non belligeranza”: «Chi non è contro di noi è per noi». Mentre nei confronti di Cristo è necessaria una esplicita adesione; nel caso della Chiesa, basta non opporvisi, per farne parte (a patto che ci sia la fede in Cristo). E tale fede è spesso presente al di là dei confini della Chiesa, perché il Signore concede i suoi doni quando vuole, come vuole, dove vuole e a chi vuole. Non siamo noi che possiamo porre limiti alla sua azione. Si direbbe che l’adagio tomistico «Deus non alligavit gratia sacramentis» si applichi, innanzi tutto, al sacramento dei sacramenti, alla Chiesa. Ma ciò non toglie alla Chiesa il suo carattere universale (“sacramento universale della salvezza”)? No, anzi lo accentua: essa è lo strumento di salvezza per tutti gli uomini, non solo per quelli iscritti alla sua anagrafe.

Vivendo in un ambiente multireligioso, sto vedendo con i miei occhi come il popolo di Dio non sempre coincida con i cristiani battezzati. Lo Spirito agisce anche al di fuori dei confini della Chiesa cattolica. La fede in Cristo è molto piú diffusa di quanto non sembri. Molti credono in Cristo; ma, per motivi che non sta a noi giudicare, non aderiscono formalmente alla Chiesa. Ma forse senza saperlo, forse in maniera anonima, ne fanno già parte. «Chi non è contro di noi è per noi».

sabato 26 settembre 2009

Chiesa e impresa

David mi ha inviato un messaggio, come al solito ricco di spunti di riflessione:


«Torno sul caso della Chiesa, oggi restia a ragionare in termini di impresa. Premetto che non sono un fanatico del “libero mercato”: Lehman Brothers non mi è crollata sulla zucca...

La storia della Chiesa per molti secoli è stata piena di religiosi, sacerdoti e laici che si sono “sporcati le mani” in economia. Ti ricordo i monaci benedettini e cistercensi che hanno rivoluzionato attorno all’anno Mille le tecniche agricole e che fino a Napoleone hanno saputo gestire enormi proprietà tenendo insieme innovazione, rispetto della persona e del territorio e sviluppo economico: non c’è quasi vino, formaggio o salume in Italia che non sia “figlio” loro! Credo che pesino qualcosa come il 10% del PIL italiano e forse il doppio nell’export. Ti ricordo anche — come esempi — Sant’Omobono, Marco Polo e Francesco Datini, che seppero fondare imperi commerciali e considerarono Messer Domineddio come il loro miglior investimento: aiuto ai poveri, apostolato, formazione, arte sacra, sostentamento del clero, missione... Quante cose un imprenditore poteva fare per non perdere la sua anima, mentre guadagnava il mondo intero! Viene in mente Ignazio di Loyola che, tenendo i conti dell’azienda agricola di famiglia, fu ispirato a discernere il bene dal male cosí come si distingue il vino buono dal vino da aceto... Che dire poi dei figli di Sant’Ignazio, che si attirarono l’ira dei nobili sfaccendati europei perché con gli indios seppero fare meraviglie, anche in termini di produzione, di organizzazione del lavoro ecc.? Per non parlare poi dei santi che hanno chiesto al Padrone della Messe di diventare soci nell’Impresa piú grande e innovativa del mondo: la Redenzione degli uomini, mettendo al servizio le loro imprese, le terre, l’ingegno... Pensiamo a Giulia Colbert, a Francesco Faà di Bruno...

Ti voglio far notare come il Maestro Divino non chieda ai ricchi (ma gli imprenditori sono tutti ricchi? tutti i ricchi sono imprenditori?) di abbandonare la loro ricchezza: lo chiede agli ingordi, a quanti ragionano secondo il mondo. Questi sono i ricchi. Un Leonardo Mondadori, convertito prima della morte, pur pieno di denari, avrebbe potuto essere povero e umile nel cuore, ti pare?

Rileggiamo insieme la parabola del Buon Samaritano, l’imprenditore come piace al Signore:

Costui “era in viaggio” dalle parti di Gerusalemme, quindi per motivi di commercio, non essendo quella la città santa per lui. Passando accanto al suo prossimo “n’ebbe compassione”. Il Signore aggiunge: “Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui”. Ha un cavallo e ricche provviste, probabilmente è vestito bene e ha pure fretta (Gerusalemme non doveva essere sicura per lui, eretico), ma ha compassione del prossimo, fa sue cioè le sofferenze di uno sfortunato. A questo punto, capisce che è arrivato il momento di fare un investimento importante: “Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in piú, te lo rifonderò al mio ritorno”. E cosí accumula tesori in Cielo. Il Signore non lo ripagherà il sabato, ma al tempo opportuno...

C’è da chiedersi perché la Chiesa non invogli i suoi figli a fare questo... Ha forse paura di essere tacciata di paternalismo dai miseri — e fallimentari — eredi del socialismo?

Vedi, lo scandalo non sono i sacerdoti o i cattolici che maneggiano denari, ma i cattivi sacerdoti e laici cattolici che lo fanno: la differenza fra Giuda, “che teneva la borsa” ed “era ladro”, e Simon Pietro, che estrae la moneta dalla bocca del pesce per pagare le tasse, non sta nei denari maneggiati, ma in chi li maneggia. Fra un sacerdote “malandrino” e Don Bosco (o Padre Pio), che fa il fund raiser, la differenza la fa la stoffa dell’uomo, non le monete che tintinnano in tasca. E lo sai bene che “un albero buono darà frutti buoni”. Vogliamo ascoltarLo, una buona volta?»


Come al solito interessante la ricostruzione storica, che indirettamente ci invita a sbarazzarci una volta per tutte dei pregiudizi verso il passato, che ci sono stati istillati dalla cultura illuministica, e a “riappropriarci” della nostra storia, di cui non abbiamo proprio da vergognarci, ma semmai andar fieri. Sono stati commessi degli errori, certo (ma non continuiamo a commetterli anche oggi? e non li hanno commessi e commettono anche quelli che cristiani non sono?); ma quante realizzazioni è stata capace la Chiesa di produrre nel corso dei secoli?

Molto interessante anche la rilettura della parabola del buon Samaritano: sinceramente, non ci avevo mai pensato. Penso che quanto affermato da David, da un punto di vista etico, sia corretto: il denaro, in sé stesso, non ha alcuna valenza morale; non è lo “sterco del diavolo”, come una certa mentalità manichea vorrebbe farci credere. Tutto sta a come lo si usa. Il problema non è il denaro, ma il cuore di chi lo maneggia. Dalle mani di una persona distaccata possono passare fiumi di denaro, utilizzati per la gloria di Dio e il benessere dei fratelli. Un cuore attaccato al denaro può peccare anche con pochi spiccioli. Gli esempi di santi portati da David mi sembrano piú che sufficienti.

Ciò non significa che non ci siano pericoli. È dell’altro giorno la notizia dell’ennesima ristrutturazione dello IOR (speriamo che questa sia la volta buona!): segno, questo, che, quando si maneggia il denaro, anche con le migliori intenzioni, si rischia di “sporcarsi le mani”. Che fare allora: stare alla larga da mammona? Ma in tal modo si rischierebbe di cadere in un pericolo ben maggiore: per non sporcarsi le mani, si rischia di non aiutare piú i bisognosi. L’Angelica Paola Antonia Negri (di cui ci siamo già occupati su questo blog), in una lettera scritta a suo nome da Sant’Antonio Maria Zaccaria, afferma:

«Sotto l’apparenza di falsa umiltà e di non voler sembrare di avere grazie, ho diminuita e tolta l’utilità del prossimo, confermandomi in questo gli scrupoli, i quali mi suggerivano che tutto quello che mi veniva in mente di dire o di fare derivasse dalla vanagloria ... E in tal modo ho seppellito il talento di rendermi utile al prossimo. E pian piano ho perso il primo fervore che avevo di guadagnare il prossimo; e, dietro a questo, il lume e la conoscenza del mio procedere interiore ... E cosí, impaurita dalla mia stessa ombra, resto in tiepidezza, avendo nel predetto modo perso il mio primo lume. E minor male mi sarebbe stato, nel sollecitare gli altri, l’essermi in parte impolverata, ritenendo detto lume, che non, lasciando loro, aver perso quello, che mi dava la vita interiore, e all’ultimo mi avrebbe mondata da tal polvere. Guardate, amabile Padre, che cosa fa il troppo temere i propri doni: ... il temere la propria ombra ci fa, mentre fuggiamo un vizio, cadere in un altro maggiore».

Sembrerebbe che la Negri stia descrivendo la situazione della Chiesa attuale: tutta preoccupata di non insudiciarsi, essa non si accorge di venir meno ai doveri che le derivano dalla missione che il Signore le ha affidato. È curioso constatare come spesso ci preoccupiamo di non impolverarci, e non ci accorgiamo di essere seduti nel fango.

venerdì 25 settembre 2009

Intelligenti pauca

Dalla prima lettura della liturgia odierna:

«Chi rimane ancora tra voi che abbia visto questa casa nel suo primitivo splendore? Ma ora in quali condizioni voi la vedete? In confronto a quella, non è forse ridotta a un nulla ai vostri occhi?

Ora, coraggio, Zorobabele — oracolo del Signore —, coraggio, Giosuè, figlio di Iosadàk, sommo sacerdote; coraggio, popolo tutto del paese — oracolo del Signore — e al lavoro, perché io sono con voi — oracolo del Signore degli eserciti —, secondo la parola dell’alleanza che ho stipulato con voi quando siete usciti dall’Egitto; il mio spirito sarà con voi, non temete.

Dice infatti il Signore degli eserciti: Ancora un po’ di tempo e io scuoterò il cielo e la terra, il mare e la terraferma. Scuoterò tutte le genti e affluiranno le ricchezze di tutte le genti e io riempirò questa casa della mia gloria, dice il Signore degli eserciti. L’argento è mio e mio è l’oro, oracolo del Signore degli eserciti.

La gloria futura di questa casa sarà piú grande di quella di una volta, dice il Signore degli eserciti; in questo luogo porrò la pace».

(Aggeo 2:3-9)

giovedì 24 settembre 2009

Don Milani

Mi è stato chiesto che cosa penso di don Milani. Beh, quando è morto (1967) ero ancora un ragazzo (avevo dodici anni). Il primo contatto con lui lo ebbi al ginnasio, quando, durante l’ora di religione, leggemmo alcune pagine di Lettere a una professoressa; ma, sinceramente, non ci trovai niente di interessante. Già a quell’epoca, era diventato un’icona della sinistra. Per questo motivo, in un periodo cosí ideologizzato come quello, io, che mi consideravo un accanito anticomunista, non potevo simpatizzare per un tipo come don Milani. Bastava un’espressione come “L’obbedienza non è piú una virtú” per alienargli le mie simpatie. Non che lo combattessi o lo criticassi (non conoscendolo, sarebbe stato scorretto); semplicemente, lo ignoravo.

Passarono molti anni. Un giorno, quando ormai avevo abbracciato la vita religiosa (ma non ero ancora diventato sacerdote), viaggiando in macchina con un mio confratello, non so come, il discorso cadde su don Milani. Il mio confratello mi chiese se lo conoscessi. Al che risposi di no. E lui mi invitò a leggere qualcosa di lui, perché — mi disse — “è una bella figura, con una profonda spiritualità”. Rimasi interdetto: don Milani, una bella figura con una profonda spiritualità? Ma se per me non era mai stato nulla di piú che un prete politicante... La cosa finí lí. Ma rimase in me la curiosità di sapere chi fosse realmente don Milani. Qualche tempo dopo comprai le Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, e cominciai a leggerle. Fu una rivelazione: scoprii un personaggio straordinario, di cui condividevo buona parte delle idee. Per esempio, il fatto che rifiutasse i metodi pastorali in voga al suo tempo (oratorio, sport, cinema, TV, ecc.) e che in quegli anni stavano ormai mostrando tutti i loro limiti, e che avesse puntato tutto esclusivamente sulla scuola, non poteva che riscuotere la mia approvazione.

Diventato sacerdote e studente all’Università di Bologna, ebbi la fortuna di dover leggere, per l’esame di letteratura italiana, Esperienze pastorali. Anche in questo caso, lo trovai un libro straordinario. E non riuscii a capire per quale motivo il Santo Uffizio ne avesse disposto il ritiro dal commercio: non ci trovavo assolutamente nulla di eretico.

Ebbi successivamente modo di approfondire il rapporto, contrastato, di don Milani con i Barnabiti. Quando la sua famiglia si era trasferita a Milano, fu alunno, per un breve periodo, dell’Istituto Zaccaria, e proprio in quel periodo chiese, con grande stupore della famiglia, di ricevere la prima comunione. Quando era priore di Barbiana, non poteva non rimarcare il carattere alternativo della sua esperienza educativa rispetto quella dei Barnabiti, educatori della borghesia. Non esitò però a chiedere in prestito alla Querce un cannocchiale per i suoi ragazzi, e mantenne sempre ottimi rapporti col compianto Padre Luigi Rima.

Che cosa penso oggi di lui? Penso che sia stata una figura importante nella storia recente della Chiesa italiana. Non ho difficoltà ad ammettere che fosse un estremista (non in senso politico, ma per la radicalità delle sue posizioni), un rigorista, oggi diremmo un fondamentalista, un “talebano”. Ma ciò non significa niente; è solo l’involucro esteriore di una esperienza umana, spirituale e pastorale eccezionale.

Certamente aveva un carattere difficile. Ricordo che un giorno, quando ero rettore alla Querce, ebbi l’occasione di incontrare Michele Gesualdi, allora Presidente della Provincia. Tentai di strappargli qualche confidenza; ma lui, molto evasivamente, mi rispose: “Don Lorenzo era un tipo un po’ particolare...”. Certi eccessi, innegabili, possono inoltre essere facilmente ricondotti all’ambiente in cui è vissuto: chi non è mai stato in Toscana non può capire certe cose.

Ma il suo rigorismo ha anche una spiegazione razionale, che non si può non condividere:

«Se la vita è un bel dono di Dio non va buttata via e buttarla via è peccato. Se un’azione è inutile, è buttar via un bel dono di Dio. È un peccato gravissimo, io lo chiamo bestemmia del tempo. E mi pare una cosa orribile perché il tempo è poco, quando è passato non torna».

Fu un cattocomunista? A stare alla famosa lettera a Pipetta, si direbbe proprio di no:

«Ma il giorno che avremo sfondato insieme la cancellata di qualche parco, installato insieme la casa dei poveri nella reggia dei ricchi, ricordati Pipetta, non ti fidare di me, quel giorno ti tradirò. Quel giorno io non resterò lí con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te di fronte al mio Signore crocefisso».

L’obiezione di coscienza? Beh, oggi dovremmo ringraziarlo per quella battaglia, che pose per la prima volta una questione diventata ai nostri giorni di estrema attualità.

Non si può in alcun modo mettere in discussione il suo amore alla Chiesa:

«Non mi ribellerò mai alla Chiesa, perché ho bisogno piú volte alla settimana del perdono dei miei peccati e non saprei da chi altri andare a cercarlo quando avessi lasciato la Chiesa».

«T’ho scritto solo per metterti in guardia contro te stesso e per difendere la mia carissima moglie Chiesa che amo tra infiniti litigi e contrasti (come ogni buon marito usa fare)».

Interessante notare, a questo proposito, che gli ultimi anni della vita di don Milani coincisero con il Concilio Vaticano II. Ebbene, leggendo i suoi scritti, sembrerebbe che quell’evento non sia mai avvenuto: mai una espressione di approvazione nei confronti di un avvenimento che stava suscitando tanti entusiasmi nella Chiesa. Quando i preti cominciavano ad “adattarsi” al mondo, egli non smise mai la sua talare. A quanto mi risulta, il rapporto con Giovanni XXIII, il “Papa Buono”, il profeta della “nuova primavera della Chiesa”, fu di reciproca disistima.

Ma la cosa piú commovente è, secondo me, l’attaccamento ai suoi ragazzi, che rivela la sua profonda umanità e, al tempo stesso, lascia intravedere il mistico che si nascondeva sotto quel carattere burbero:

«Quando avrai perso la testa, come l’ho persa io, dietro poche decine di creature, troverai Dio come un premio».

«[Cari ragazzi], ho voluto piú bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto».

mercoledì 23 settembre 2009

Il latino nella Chiesa

Ieri il quotidiano Italia Oggi ha pubblicato un articolo di Marco Bertoncini, dal titolo “Latino derelitto in Vaticano”. Prendendo spunto dalla recente pubblicazione dell’edizione latina dell’ultima enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate (che porta la data del 29 giugno 2oo9), l’articolista rileva come il latino sia ormai diventato una specie di cenerentola, oltre che nella Chiesa in genere, anche all’interno delle mura leonine.

Che i preti non conoscessero piú il latino, lo si sapeva da tempo; ma, se devo essere sincero, è da non minor tempo che mi ero reso conto della scarsa padronanza della lingua di Cicerone da parte delle nuove leve nei dicasteri della Curia Romana. Qualche anno fa, quando ero a Roma, nella nostra Curia generalizia, da una delle Congregazioni ci arrivò un decreto di nomina con uno stupefacente “Alexandrius” (che, secondo lo sprovveduto estensore, sarebbe dovuto essere il corrispettivo latino dell’italiano “Alessandro”). E quando fu dichiarata l’eroicità delle virtú di uno dei nostri Servi di Dio, dovemmo apportare non pochi ritocchi al relativo decreto prima della pubblicazione.

A dire il vero, all’uscita dell’enciclica, lo scorso luglio, non mi ero reso conto che il testo ufficiale latino non era stato pubblicato. È però risaputo che qualcosa di simile successe con il Catechismo della Chiesa Cattolica: 1ª edizione, nelle diverse lingue moderne, 1992; edizione latina, “approvata e promulgata” con una specifica lettera apostolica, 1997. In tal caso, forse, la dilazione può essere stata anche provvidenziale, dal momento che permise di “ripensare” il testo e apportarvi alcune modifiche.

C’è da meravigliarsi della presente situazione? Non piú di tanto: la Chiesa non vive fuori dal mondo; non tutto dipende sempre e solo dalle sue decisioni; spesso essa subisce le conseguenze di scelte fatte altrove o, piú in generale, di fenomeni che sfuggono al suo controllo. Personalmente ritengo che l’ignoranza del latino nella Chiesa è il risultato di diversi fattori.

Innanzi tutto, è il risultato della disistima, in Occidente, per la cultura classica. In Italia, ancora ancora, non possiamo lamentarci. In fondo, esiste ancora il liceo classico (dopo aver girato un po’ il mondo, mi sono convinto che si tratta del miglior tipo di scuola in assoluto); ma altrove, dove si studiano ancora le lingue classiche?

C’è poi da considerare le diverse modalità di reclutamento del clero. Fino a cinquant’anni fa, si entrava in seminario da bambini, e tutti seguivano in esso gli studi classici. Oggi si arriva in seminario avanti negli anni, dopo aver compiuto studi di vario genere (spesso anche tecnico-professionale); per quanto in seminario si cerchi di recuperare, mancando le basi, è come costruire sulla sabbia.

C’è infine da ricordare il fenomeno della internazionalizzazione della Chiesa. Oggi, la maggior parte delle vocazioni vengono dal terzo mondo, dove il massimo che si può desiderare è la conoscenza di una lingua europea (inglese o francese). Il latino? Semplicemente, non esiste.

Si dirà: a prescindere dal contesto in cui si vive, la Chiesa dovrebbe organizzarsi per conto proprio al suo interno; nei seminari lo studio del latino dovrebbe essere obbligatorio. Sí, certo. Il problema è che le leggi in tal senso già ci sono; ma rimangono lettera morta, come le gride di manzoniana memoria, appunto perché il contesto in cui si vive, non permette di metterle in pratica.

Scusatemi se faccio riferimento, ancora una volta, alla mia personale esperienza; è solo per farvi capire. Ho vissuto per cinque anni nelle Filippine. I nostri studenti teologi frequentavano (e tuttora frequentano) il Divine Word Seminary dei Verbiti a Tagaytay, dove, come in tutte le altre scuole di teologia, è richiesta, per l’ammissione, la conoscenza del latino, che può essere certificata con una dichiarazione. Siccome io mi rendevo conto che i miei studenti non conoscevano affatto il latino (nonostante dichiarassero di averlo studiato durante il noviziato), proposi ai responsabili del Seminario l’istituzione di una Scuola di lingue classiche e moderne, interna al Seminari stesso, che permettesse uno studio serio delle diverse lingue; per il latino e l’italiano diedi anche la mia disponibilità. Non se ne fece nulla. A quel punto incominciai, per mio conto, a insegnare in casa ai miei studenti latino e italiano (che per il nostro Ordine è un po’ una sorta di lingua franca). All’inizio, potete immaginare le battaglie; ma a poco a poco incominciarono ad apprezzare queste lingue. Anzi, se devo essere sincero, riuscivano meglio in latino (naturalmente, un latino ecclesiastico) che in italiano. Ora ho lasciato le Filippine: pensate che qualcuno continuerà ha insegnare loro il latino? Per l’italiano non ci sono problemi, dal momento che i nuovi responsabili, filippini, hanno tutti studiato in Italia; ma il latino, nessuno lo sa. Un giorno mi divertii a fare una ricerca su internet, per cercare una (dicasi: “una”) facoltà di lingue classiche nelle università filippine, civili o ecclesiastiche. Ebbene, non l’ho trovata: se un filippino volesse studiare il latino o il greco, non troverà in patria nessuna scuola dove farlo (e pensare che il loro eroe nazionale, José Rizal, aveva voti eccellenti in latino e greco!).

Il problema è questo. Facile dire: bisogna che i candidati al sacerdozio studino il latino. Sí, ma chi glielo insegna? Sono d’accordo che non ci si può rassegnare. Bisogna fare qualcosa, ma nella consapevolezza che, se si vuole essere efficaci, lo sforzo sarà notevole e i tempi necessariamente lunghi. L’esperienza raccolta in questi anni mi ha insegnato che non c’è bisogno di ingrullire per cinque anni su Cicerone o sul De bello Gallico per comprendere il latino liturgico o canonico. Esistono delle eccellenti grammatiche che permettono in tempi ragionevoli di orientarsi nei meandri del latino ecclesiastico.

Anche perché non è necessario partire dal piú difficile per arrivare al piú facile; semmai, è vero il contrario. Io ho frequentato il classico, che certamente mi ha dato delle buone basi grammaticali; però, se devo essere sincero, quando ho terminato il liceo, non posso dire che conoscessi il latino. Ho cominciato ad apprezzare quella lingua e a capirci qualcosa, quando sono arrivato all’Angelicum e ho iniziato a leggere San Tommaso nel testo originale. Quel latino medievale facile facile mi ha permesso di prendere dimestichezza con una lingua che, fino ad allora, mi era apparsa decisamente ostica. Poi ho continuato a tenermi in esercizio con la recita dell’Ufficio divino in latino (dove però ancora incontro difficoltà, specialmente in certe traduzioni umanistiche dei padri greci), e sono arrivato al punto di dilettarmi, di tanto in tanto, anche in qualche semplice composizione.

A Roma esistono istituzioni che permettono di uscire dall’impasse: all’Università Salesiana c’è la Facoltà di Lettere Cristiane e Classiche (l’ex Institutum Altioris Latinitatis); alla Gregoriana un tempo c’era la Scuola Superiore di Lettere Latine (non so se esista ancora). Bisognerebbe fare un piano, in modo che tutte le diocesi del mondo, come mandano qualche studente a studiare Sacra Scrittura, teologia o diritto canonico, cosí mandino pure qualcuno a studiare latino, in modo che possa diventare insegnante nei locali seminari. So che non è facile, ma neppure impossibile. È tutta una questione di volontà politica. Certamente non è sufficiente contare, in questo caso, sulla Fondazione Latinitas, che non è competente in materia. Bisognerebbe che la Congregazione per l’Educazione cattolica prendesse in mano la situazione. Volere è potere. Ops! Velle est posse.

martedì 22 settembre 2009

Ancora sulla diaspora arabo-cristiana

La realtà è sempre complessa; la tentazione è quella di semplificarla oltre il necessario, per ridurla entro gli angusti limiti dei nostri schemi mentali. Dovremmo ricordarci sempre di questa verità, se vogliamo rimanere in contatto con la realtà e non rinchiuderci nelle gabbie dell’ideologia. Per questo è utile ascoltare le opinioni di tutti, anche quando queste non collimano totalmente con le nostre, perché in tal modo abbiamo la possibilità di verificare se le nostre idee corrispondano davvero alla realtà o sono semplicemente frutto dei nostri pregiudizi.

Il mio post dell’altro giorno sulla sorte dei cristiani in Terra Santa ha raccolto discreti consensi; segno, questo, che si tratta di una preoccupazione ampiamente condivisa. Cosa che non può che far piacere. David però mi ha scritto invitandomi ad allargare lo sguardo, per rendermi conto che il problema è piú complesso di quanto non sembri; o, per lo meno, può avere diverse spiegazioni. Penso che sia utile per tutti considerare questo altro punto di vista, che può certamente arricchire la nostra riflessione.


«Permettimi due parole sulla “diaspora” degli arabi cattolici (melkiti, maroniti, bizantini, romani, ecc.) dalla Palestina e da Israele, ma anche da Libano, Iraq, Egitto, Siria e Iran... A ben vedere, è un fenomeno che non dipende solo dalle politiche di Israele, ma anche da fattori differenti. Prima di tutto, chi sono questi arabi cattolici? Sono spesso commercianti, professionisti, intellettuali e imprenditori, che emigrano prima di tutto verso le Americhe e non lo fanno da ora, ma da almeno settanta anni: basti guardare quanti vivono in Brasile, in Uruguay, negli Stati Uniti e soprattutto in Argentina, dove oggi sono milioni e esprimono la migliore classe dirigente di quei Paesi. Persino arabi musulmani sono emigrati con loro e sono diventati cattolici, come nel caso dell’ex-presidente Menem. Emigrano in cerca di condizioni di vita migliori, non solo di pace: lo fanno perché se lo possono permettere e perché intendono dare ai loro figli condizioni di vita all’altezza della loro istruzione e della loro cultura. Fanno lo stesso che fecero Irlandesi, Italiani e Bavaresi nell’Ottocento; Polacchi, Slovacchi e Croati anche ai nostri giorni... Cosí facendo portano con sé la loro fede, che non va perduta anzi — specie nelle Americhe — si diffonde e si approfondisce, apportando elementi di coraggio a comunità cattoliche spesso fiaccate e spaventate dopo decenni di governi ateo-massonici. [...]

Se la Chiesa vuole mantenere una “fiaccola” accesa in Terra Santa [...], allora stimoli giovani cattolici europei, asiatici e americani a stabilirsi in loco: i Filippini si troveranno certo meglio che nel Golfo e in Arabia Saudita, dove milioni di lavoratori sono spesso (ma non sempre) privati della libertà di praticare la loro fede. Scoprirà cosí che forse Israele è meno nemico di quanto possa sembrare... Lungi da noi l’idea di proteggere i cattolici di lingua araba come una specie in via di estinzione, forzata a restare in loco solo perché meno istruiti e meno fortunati di altri loro connazionali da tempo stabilitisi in Brasile o in Australia.

Soprattutto, se vogliamo che restino, offriamo loro ragioni per farlo: non vedo perché la Chiesa non stimoli imprenditori cattolici (ce ne sono eccome!) a investire in loco per dare ragioni serie di restare a quanti vogliono farlo. Non possiamo pensare che vogliano solo vendere ninnolini religiosi! In Egitto, per dire, gli imprenditori copto-ortodossi quasi sempre investono dove ci sono comunità di loro correligionari e assumono quanti hanno la loro stessa fede. Se vuol farlo, Pietro non ha che da tirare fuori dalla bocca del pesce la moneta... Ti ricordo le sagge parole di Padre Pio, quando parlava di una follia come costruire un modernissimo policlinico in un paesello depresso e isolato del Sud Italia: “La Madonna apre i cuori... ma apre anche i portafogli!”».


Mi pare che le annotazioni storiche di David siano assai pertinenti: il fenomeno della diaspora non è recente, e attualmente si sta verificando non solo in Terra Santa o in altri paesi arabi. È vero che esso riguarda principalmente i cristiani, non solo perché questi se lo possono permettere, ma anche perché hanno un livello culturale superiore e sono piú sensibili al richiamo dell’Occidente.

Rimane il problema che, in tal modo, il Medio Oriente rischia di perdere la componente cristiana, che ha sempre costituito una realtà importante, per quanto minoritaria, di quella regione. Dice David: rimpiazziamoli! L’idea potrebbe sembrare balzana, ma non lo è poi cosí tanto. In parte, ciò sta già avvenendo. La presenza di lavoratori cristiani (soprattutto indiani e filippini) nei paesi del Golfo è una realtà. I filippini in Terra Santa ci sono già: secondo alcune statistiche del 2004 essi ammontavano a circa 40 mila (prima dell’operazione “Piombo fuso”, ce n’erano un centinaio anche a Gaza). Come ho già avuto modo di dire, sono pienamente consapevole del ruolo che i filippini stanno svolgendo, forse senza saperlo, nel mondo. La Chiesa sarà loro a lungo debitrice.

L’ultima proposta di David mi sembra piuttosto interessante. Forse è vero: la Chiesa, oltre a predicare il Vangelo (cosa che ha sempre fatto e continua a fare), dovrebbe recuperare una certa iniziativa in campo socio-economico-politico. Con tutti i rischi che questo comporta. Col rischio di “sporcarsi le mani”. Ma forse si tratta di un rischio da correre. Una Chiesa purissima, che si limita a richiamare i principi, rischia di essere disincarnata e di perdere una delle sue caratteristiche principali: quella di essere “lievito” della società. Nella fattispecie, una “Chiesa-imprenditrice” (non in prima persona, ma attraverso l’iniziativa economica dei suoi membri) mi sembra un’idea da non scartare. Anche perché ciò ha sempre caratterizzato l’azione della Chiesa nel corso dei secoli. Vogliamo davvero aiutare i cristiani in Terra Santa? Le preghiere sono certo importanti, ma forse un aiutino concreto, che non si riduca alla semplice elemosina, non guasterebbe.

lunedì 21 settembre 2009

Una bella notizia e... retroscena inquietanti

1. Cominciamo con la bella notizia. Come non accogliere con gioia l’annuncio, dato dallo stesso Sommo Pontefice, della convocazione di un’assemblea speciale del Sinodo dei Vescovi per il Medio Oriente? D’accordo che i problemi di quella regione sono tali e tanti, che non ci si può illudere che essi possano essere risolti con un Sinodo di Vescovi. Ma sarà certamente un’occasione per tutti i credenti di prendere coscienza della drammatica situazione in cui versano le popolazioni e, in particolare, i cristiani ivi residenti. Sono convinto che tale Sinodo sarà una fonte di benedizione per la Chiesa e i popoli del Medio Oriente. Grazie, Santo Padre!

Un amico mi ha scritto ieri:

«Pare che il Papa abbia ascoltato il tuo “grido di dolore”: convocato il Sinodo per il Medio Oriente. Ma, politicamente parlando, non vedo per ora resipiscenze di Israele circa la sua dissennata politica di insediamenti nei territori occupati, ostracismo di arabi e cristiani da Gerusalemme e Israele, campagne planetarie di giornalismo spazzatura, minacce e ritorsioni militari asimmetriche e sproporzionate. Forse bisogna avere la pazienza dei tempi storici perché si avverino i desideri dei profeti disarmati».

Certamente il Santo Padre non ha convocato il Sinodo, per altro già atteso, in risposta al mio “grido di dolore” (semmai il grido di dolore veniva dal Patriarca Twal, che parlava a nome del suo piccolo gregge, che si va sempre piú assottigliando, e a nome di tutti gli oppressi di Terra Santa); ma, in ogni caso, non ci si può che rallegrare della fortuita coincidenza.

Quanto alla “pazienza dei tempi storici”, sono convinto che la pazienza sia una virtú che deve contraddistinguere tutti, non solo i “profeti disarmati”; ma sono altrettanto convinto che le situazioni possono cambiare da un momento all’altro, quando meno ce lo aspettiamo. Ricordo che solo qualche tempo prima della caduta del Muro di Berlino, Andreotti era ancora convinto che l’esistenza di due Germanie fosse ormai un dato definitivo, che non potesse in alcun modo essere messo in discussione. Sappiamo come è andata a finire. Specialmente quando sono in gioco la verità e la giustizia, non possiamo rassegnarci allo statu quo.


2. Veniamo ora ai retroscena inquietanti. Ricorderete che, nel bel mezzo della vicenda Boffo, il Direttore dell’Osservatore Romano, Gian Maria Vian, aveva rilasciato un’intervista al Corriere della Sera, nella quale metteva in discussione le scelte editoriali di Avvenire nei confronti del governo Berlusconi. L’intervento poteva sembrare di non molto buon gusto per la tempistica adottata; ma, tutto sommato, si poteva pure condividere. Quando però Dino Boffo scrisse la sua lettera di dimissioni al Card. Bagnasco, si capí che c’era sotto qualcosa: «Se qualche vanesio irresponsabile ha parlato a vanvera, questo non può gettare alcun dubbio sulle intenzioni dei Superiori, che mi si sono rivelate sempre esplicite e, dunque, indubitabili».

Giorni fa, come sapete, c’è stata, a Roma, la presentazione del libro di Andrea Tornielli, Paolo VI. Dopo qualche giorno, Sandro Magister, sul suo blog Settimo Cielo, pubblica un post da titolo “Al montiniano Vian c’è un Paolo VI che va di traverso”, nel quale fa notare che, fino a quella data, L’Osservatore Romano non ha ancora recensito il volume di Tornielli. La cosa incomincia a puzzare.

L’altro giorno, sul Giornale compare un articolo di certa Diana Alfieri dal titolo “Quella falsa congiura laicista per coprire la verità su Boffo”. Diana Alfieri! Chi era costei? Mah, sarà una redattrice del quotidiano di Feltri, certamente una fervente cattolica, visto il linguaggio che usa, e molto bene informata, viste le cose che rivela. Praticamente si tratta di una risposta all’articolo di Socci pubblicato su Libero dell’11 settembre (a cui anche questo blog ha fatto riferimento), per smentire la ricostruzione ivi proposta e invitare a non divagare, ma a concentrarsi di nuovo sulla sostanza del caso Boffo, vale a dire sulla sua non idoneità a dirigere il quotidiano cattolico italiano. In ogni caso, rimane un articolo alquanto misterioso. Fra l’altro, in esso si tira in ballo anche Sandro Magister, «vaticanista dell’Espresso ... notoriamente molto vicino al cardinale Camillo Ruini». Mah.

Lo stesso giorno Magister, sempre sul suo blog, rivela un retroscena: «Diana Alfieri non è una persona in carne ed ossa. È un “nom de plume”, una firma fittizia d’uso corrente al “Giornale” ... Il “non de plume” serve a coprire l’autore vero, la persona reale che è in definitiva l’ispiratore ultimo dell’articolo. Cioè, in questo caso, Giovanni Maria Vian».

Qualcuno sa dirmi che cosa sta succedendo? L’impressione che se ne ha dall’esterno è che siamo ormai arrivati alla resa dei conti. Il che non mi sembra uno spettacolo tanto edificante. Visto che fra i miei lettori ce ne sono alcuni anche in Vaticano, vorrei chiedere loro la gentilezza di far arrivare a chi di dovere, in “terza loggia”, il seguente messaggio: Non sarà il caso che qualcuno prenda in mano la situazione, prima che essa degeneri e si arrivi a un altro scandalo, di cui non si sente, al momento, proprio alcun bisogno?

domenica 20 settembre 2009

XXV domenica "per annum"

«Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà».

È la seconda volta che Gesú parla della sua passione. La prima volta Pietro si era risentito, rimproverando Gesú. Questi, a sua volta, aveva reagito sdegnosamente, addirittura appellando Pietro “Satana”. Questa volta sia i discepoli sia Gesú, forse ammaestrati dalla precedente esperienza, reagiscono in maniera totalmente diversa.

I discepoli «non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo». Come se non bastasse, continuarono nei loro discorsi su chi fosse piú grande. Che abisso! Gesú parla di sofferenze, e loro discettano di onori... Gesú avrebbe avuto tutti i motivi per indignarsi e dare loro una bella lavata di capo. E invece che fa?

«Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: “Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti”».

Gesú si siede. Capite? Con infinita pazienza, conoscendo l’umana debolezza dei suoi discepoli, egli accetta di ragionare pacatamente con loro. Su che cosa? Di nuovo sulla necessità di portare la croce, come aveva fatto la prima volta? No, sarebbe stato inutile; non avrebbero capito. Questa volta adotta una strategia diversa. Neppure li rimprovera per aver espresso il desiderio di primeggiare. Gesú conosce il cuore dell’uomo; sa che in esso c’è un naturale istinto a primeggiare. Sicché dice ai Dodici: “Volete essere i primi? OK, io vi insegnerò il modo per diventarlo. Siate gli ultimi. Volete diventare grandi? Imparate a servire. Il servizio è la strada che vi condurrà alla gloria”.

E la croce? Gesú smentisce quanto aveva detto la volta precedente? Ha capito di aver preso una cantonata? Si è reso conto che i suoi discepoli non accetteranno mai la croce? No, ha solo cambiato tattica. Gesú sa — perché questa è l’esperienza che lui stesso sta facendo — che, una volta che si è accettato di essere gli ultimi e i servi di tutti, si è disposti anche ad abbracciare la croce: chi è pronto a servire è pronto anche a morire. Il servizio è la strada che conduce alla croce, e la croce è la strada che conduce alla gloria.

sabato 19 settembre 2009

Chiese brutte #2

Ancora una volta il mio ex-alunno David mi ha inviato alcune riflessioni, ispirategli dalla lettura del mio post su Chiese brutte: problema educativo o “politico”. Siccome trovo condivisibile buona parte delle sue considerazioni, penso che sia opportuno pubblicare l’intervento, cosicché anche i lettori possano prenderne visione.


«Caro Padre, ti prego, non pensare che voglia sempre dire la mia sul tuo (interessantissimo) blog, ma la questione delle chiese brutte mi appassiona da parecchio. Credo che il problema abbia radici profonde, al di là della formazione estetica dei parroci e delle diocesi che si rivolgono ad architetti e geometri laicisti. Verrebbe da dire: e dove lo troverai mai un progettista e esecutore di chiese di formazione cristiana? Questo è un fronte su cui la Chiesa cattolica ha abdicato da parecchio tempo... Hai notato che in Europa nessuna delle università cattoliche ha una facoltà di architettura? Né il Sacro Cuore né quelle dell’Opus Dei e degli ordini religiosi, tanto meno le università pontificie! Per non parlare poi del design e della moda: quelli sono campi che il clero guarda ancora con disprezzo, quando non con disgusto, lasciandoli spesso nelle mani di depravati e di laicisti.

C’è da chiedersi come sia possibile che chi ha inventato tutti gli stili architettonici e ispirato tutti i movimenti artistici per quasi quindici secoli possa disinteressarsi tanto alla formazione di architetti, ingegneri e designer... Forse il Signore non ha ammonito che se la Chiesa non predicherà il Vangelo del Regno, “grideranno le pietre”? Forse non erano Lui e il padre putativo costruttori o decoratori di case e di strade? Forse non indossò durante la Passione un magnifico abito “tessuto tutto d’un pezzo” che i soldatacci romani seppero apprezzare subito e che sicuramente era passato per le mani di Maria?

Eppure, le chiese oggi sono il trionfo della decorazione minimalista, del cemento armato, delle forme geometriche piú assurde... Già, assurde... perché l’opposto del Mistero, che sta dietro la Fede, non è la ragione, che anzi della Fede è spesso ancella, ma l’assurdo, la sciocchezza esaltata come verità, l’idiozia spacciata per bellezza. E cosí ci troviamo con chiese a forma di libro, di barca, di... astronave. Mi è capitato di passare per Via Baracca a Firenze e pensare che la sede locale di una banca fosse una chiesa e ne ho riso amaramente perché... tante chiese fra Prato e Firenze mi sembrano banche, biblioteche o fabbriche!

La cosa triste è aver perso quello che gli esperti di marketing chiamano il family style: quei pochi elementi comuni a diversi prodotti che rendono riconoscibile la marca. Pensa alle chiese come prodotto (delle loro epoche) e vedrai che ci sono alcuni elementi caratterizzanti tutte le generazioni: l’altare, il tabernacolo, la navata, il crocifisso, gli altari laterali... Se entro in un edificio dove non trovo il Padrone di Casa ad aspettarmi al centro (il tabernacolo) dove l’occhio cade appena oltrepasso la soglia, né trovo distintamente i segni della sua presenza nella vita della casa (altare, pulpito, ambone...), né riesco a identificare tutto attorno altri elementi distintivi di quella dimora (altari laterali, fonte battesimale, santi...), come posso identificarmi io stesso in quel luogo, nella sua storia, integrarmi nella vita del Padrone di Casa? Perché le merendine per bambini e le automobili tedesche si caratterizzano per un’identità piú marcata della Chiesa? Certo, come marketing siamo sempre stati scarsi: ti immagini una religione dove il Fondatore — che conosce tutto, dall’infinitamente piccolo degli atomi all’estremità delle galassie — sceglie un traditore fra i suoi seguaci piú intimi? E un omuncolo come Pietro come suo successore? Come minimo l’ufficio marketing di un’altra religione (Islam, gli stessi evangelici) avrebbe fatto sapere a tutti che il traditore si era sostituito a un giusto inizialmente scelto dal Capo (nel Corano, Giuda è crocifisso al posto di Gesú!). E che Simon Pietro — lungi dal rinnegare il Maestro e darsela a gambe — era in realtà stato catturato con lui e aveva vinto la morte con Lui. Ma scherziamo? Però, la Chiesa non è così...

Quei grandi capolavori che sono le cattedrali gotiche e le certose sono cresciute nel corso dei secoli, spesso finendo in rovina per la miseria (morale, non materiale) degli uomini che le abitavano. Magari sarà cosí anche stavolta: nel corso delle generazioni le chiese brutte saranno abbellite col dono di statue e dipinti, con migliori decorazioni, con interventi architettonici saggi. Intanto, stanno lí, monumento alla nostra epoca. In attesa che lo spirito le riempia di vita come ossa inaridite. Sí, “vieni Spirito dai quattro venti!” E magari fai aprire un politecnico cattolico...»


Se devo essere sincero, non mi ero mai reso conto che non esiste alcuna facoltà ecclesiastica di architettura. A Roma esistono un Pontificio Istituto di Archeologia sacra e un Pontificio Istituto di Musica sacra, ma non esiste un Istituto di Arte sacra. Non sarebbe il caso di incominciare a pensarci?

Quanto al design e alla moda, beh, devo dire che negli anni Trenta del secolo scorso il barnabita Padre Erminio Rondini fondò a Trani la Congregazione delle Piccole Operaie del Sacro Cuore con lo scopo di cristianizzare l’alta moda femminile. Non so con quali risultati, ma per lo meno va apprezzata l’apertura mentale e la lungimiranza di quel religioso.

Parlando di chiese di ogni forma, David mi ha fatto venire in mente una chiesa costruita dai Barnabiti una decina di anni fa a Brasilia. Che cosa vi ricorda?


Non so come sia l’interno (non ci sono mai stato); ma, se devo essere sincero, non spasimo dalla voglia di vederlo...

Invece vorrei mostrarvi un’altra chiesa, costruita sempre dai Barnabiti, questa volta a Varsavia. È stata inaugurata nel 2003, durante l’anno giubilare che era stato indetto in occasione del 5° centenario della nascita di Sant’Antonio Maria Zaccaria (a cui la chiesa è dedicata).


Beh, direi: tutt’altra musica. Si tratta, sí, di una chiesa moderna, ma che si ispira ai canoni classici. Anche l’interno, vi posso assicurare, è molto bello: una chiesa accogliente, “calda”, che favorisce la preghiera. Ci sono ancora degli interventi da fare (pavimento definitivo, vetrate, confessionali, ecc.), ma già ora si presenta molto bene.

Prima di concludere, mi permetto di esprimere qualche perplessità a proposito della possibilità di abbellimento di certe chiese: in certi casi è possibile; in altri, c'è solo da attendere che il tempo le distrugga (e non credo che ce ne voglia molto...).

venerdì 18 settembre 2009

Che ne sarà dei cristiani di Terra Santa?

L’altro giorno l’agenzia ZENIT ha riferito del discorso pronunciato dal Patriarca latino di Gerusalemme (a proposito: come mai i Patriarchi latini di Gerusalemme non diventano mai Cardinali? La Chiesa-madre della cristianità non merita forse una porpora?), Mons. Fouad Twal, l’8 settembre scorso a Londra nella Cattedrale di Westminster. Non mi pare che tale intervento abbia avuto la risonanza che avrebbe meritato. Pertanto mi permetto di farvi eco, nel mio piccolo, perché non voglio, come ho già ripetuto altre volte, che qualcuno possa dire un giorno: “Non sapevamo...”.

Il Patriarca ha, innanzi tutto, lanciato un grido di allarme circa il futuro della Chiesa in Terra Santa:


«Il Patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal, ha avvertito che il futuro della Chiesa in Terra Santa è a rischio. Per questo motivo, ha chiesto ai cristiani di tutto il mondo di unire i propri sforzi per aiutare i fedeli della terra di Gesú.

[...] Il Patriarca ha sottolineato che l’emigrazione ha ridotto drasticamente il numero dei cristiani sia in Israele che in Palestina. Secondo il presule, ricorda l’associazione caritativa internazionale Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS), che ha organizzato l’incontro londinese, si pensa che i fedeli di Gerusalemme diminuiranno dai 10.000 attuali a poco piú di 5.000 nel 2016. In tutta la Terra Santa, ha aggiunto, i cristiani sono scesi dal 10 al 2% in 60 anni, anche se altre prove mostrano che il declino potrebbe essere superiore».


Si noti che “in 60 anni” significa: “dalla creazione dello Stato di Israele” (1948). Se le statistiche hanno un senso, le conclusioni dovrebbero essere ovvie.

Mons. Twal ha quindi descritto la reale situazione dei cristiani e delle altre minoranze in Terra Santa:


«Il Patriarca ha confessato che fino ad ora il pellegrinaggio svolto da Benedetto XVI in Terra Santa a maggio non ha portato a una minore oppressione delle minoranze e che “la continua discriminazione in Israele minaccia sia i cristiani che i musulmani”.

“Tra la limitazione degli spostamenti e la noncuranza per le necessità abitative, le tasse e la violazione dei diritti di residenza, i cristiani palestinesi non sanno da che parte voltarsi”.

Il Patriarca Twal ha condannato in particolare il muro eretto da Israele intorno alla West Bank, affermando che oltre a ostacolare la libertà di movimento “ha chiuso molti palestinesi in zone-ghetto in cui l’accesso al lavoro, all’assistenza medica, all’istruzione e ad altri servizi di base è stato gravemente compromesso”.

“Abbiamo una nuova generazione di cristiani che non può visitare i Luoghi Santi della sua fede anche se distano solo pochi chilometri dal luogo in cui risiede”, ha denunciato. [...]

Nei Territori Occupati, ha aggiunto, la gente “è completamente alla mercé dell’Esercito israeliano, e al momento la Striscia di Gaza vive sotto un assedio imposto da Israele, che ha provocato una drammatica crisi umanitaria”».


C’era qualcuno che si era illuso che la visita del Papa in Terra Santa avrebbe cambiato qualcosa? Basta vedere che cosa stanno facendo in questi giorni gli israeliani con gli insediamenti: bloccarli — ha detto Netanyahu — sarebbe contro la pace!!!

Mons. Twal ha infine fatto una amara riflessione che tutti faremmo bene a fare insieme con lui:


«Se in 61 anni non siamo riusciti a ottenere la pace, vuol dire che i metodi che abbiamo usato erano sbagliati».


Penso proprio che il Patriarca abbia ragione: i metodi finora usati — non solo dai poveri cristiani di Terra Santa, ma dalla Chiesa intera e dalla fantomatica “comunità internazionale” — erano sbagliati. Che significa? Significa che bisogna cambiare politica nei confronti dello Stato di Israele. Non è possibile continuare a seguire una politica di formale “equidistanza”, che di fatto si risolve in un sostegno incondizionato per Israele a danno dei palestinesi. Non è possibile continuare a riaffermare il “sacrosanto diritto di Israele all’esistenza” e il (non altrettanto sacrosanto) “diritto dei palestinesi ad avere un loro Stato”. Sono chiacchiere. È giunta l’ora di prendere una posizione netta a favore degli oppressi contro l’oppressore. Anche perché Israele approfitta della timidezza della Chiesa e della comunità internazionale (che tiene sotto ricatto con l’arma dell’antisemitismo) per fare i propri comodi.

Personalmente sono convinto che, se tutti avessero un po’ piú di coraggio, Israele non potrebbe permettersi di fare quello che sta facendo. Ma — argomentano i pusillanimi — Israele è una potenza nucleare; potrebbe distruggerci tutti in un batter d’occhio. Per me, è solo un gigante dai piedi di argilla. Quando ero giovane, esisteva l’Unione Sovietica: sembrava una superpotenza invincibile, che terrorizzava i popoli con le sue armi. A Roma aspettavamo, da un giorno all’altro, che i cosacchi si accampassero in Piazza San Pietro. Li stiamo ancora aspettando. Dov’è finita nel frattempo l’Unione Sovietica? È finita nel nulla, dalla sera alla mattina. Prima o poi, se Israele continuerà con la sua politica criminale, farà la stessa fine; e i suoi abitanti se ne fuggiranno uno a uno all’estero, dove hanno una seconda cittadinanza. Il bello sarà, a quel punto, che tutti se ne laveranno le mani, e l'unica su cui ricadranno tutte le colpe sarà, come al solito, la Chiesa cattolica, che verrà accusata di aver sostenuto il regime israeliano. Quanto ci volete scommettere?

giovedì 17 settembre 2009

Chiese brutte: problema educativo o "politico"?

Ho letto ieri l’articolo del Giornale che riportava il giudizio espresso da Mons. Ravasi sulle chiese moderne: «Un certo cattivo gusto nelle chiese, oggi, è un dato di fatto. Per questo è indispensabile una formazione di tipo estetico a partire dai seminari e dalle parrocchie».

Tale intervento è stato accolto favorevolmente, come segno di un’inversione di tendenza della Chiesa in campo artistico. Da parte mia, mi permetto di fare qualche considerazione.

Non voglio parlare del passato; sarebbe del tutto inutile: il passato è passato. Concentriamoci piuttosto sul presente e sul futuro. Ebbene, mi sembra abbastanza comodo — oltreché velleitario — pensare di risolvere il problema appellandosi alla formazione. Oggi sembra che tutti i problemi si possano e si debbano risolvere sul piano educativo. Per carità, sono il primo a riconoscere il ruolo basilare e insostituibile dell’educazione; ma non è vero che le responsabilità vadano sempre e solo individuate in un difetto di formazione. Perché, se cosí fosse, qualsiasi problema sarebbe esclusivamente un problema della “base”. Il che mi sembra, onestamente, un comodo alibi, con cui i “vertici” cercano di nascondere le proprie responsabilità. I problemi hanno, il piú delle volte, cause “politiche”, e attendono, per essere risolti, soluzioni “politiche”.

Da parte mia, non ho nulla, in linea di principio, contro una “formazione estetica” nei seminari (semmai, mi chiedo come questa possa avvenire in una parrocchia...). Siccome però sono direttamente coinvolto nel lavoro di formazione, ho l’impressione che talvolta ci si attenda troppo da noi formatori: dovremmo essere in grado non solo di dare una formazione spirituale-teologica ai candidati al sacerdozio, ma prima di questa dovremmo assicurare ai seminaristi una formazione umana e culturale, e successivamente dovremmo completare la loro formazione con un addestramento pastorale e con corsi integrativi nei piú svariati settori (che vanno dall’economia alla politica, dalle scienze umane alla tecnologia, e chi piú ne ha piú ne metta: adesso aggiungiamoci anche l’arte). Sinceramente, non vi sembra un po’ troppo? Abbiamo già da sudare sette camicie, perché i candidati giungono in seminario senza alcuna formazione di base: non è piú come una volta che si entrava in seminario da bambini e tutti seguivano, nel seminario stesso, gli studi classici; oggi arrivano con studi un po’ raffazzonati, e tu devi ricominciare da capo, a partire dalle abilità linguistiche di base, spesso carenti (altro che latino e lingue bibliche e moderne...). Figuriamoci, ora dobbiamo dare loro anche una formazione estetica. Ma ci si rende conto che oggi la maggior parte dei candidati viene dal terzo mondo, dove non si ha idea di che cosa sia l’arte? Ma, in ogni caso, si può accettare la sfida, in quanto anche un pizzico di estetica fa parte di una educazione integrale.

Il problema però, a mio parere, non sta qui, nella formazione dei futuri sacerdoti. Semplicemente perché non è il povero parroco che decide della costruzione di una chiesa. È vero, molto spesso la parrocchia viene eretta prima della costruzione della chiesa, per cui il parroco ha una responsabilità nella richiesta e ispirazione dei progetti. Ma poi tali progetti devono essere approvati dalla commissione o dai responsabili deputati in ogni diocesi per l’architettura sacra. Quindi il problema non è tanto quello di avere parroci con senso estetico (ovviamente, se ce l’hanno, tanto meglio); il problema è, appunto, un problema “politico”: sono gli organi diocesani competenti che devono funzionare. Se viene presentato il progetto di una chiesa-scatola, esso deve semplicemente essere cestinato. Ci vuol tanto? Allora il vero problema è, sí, un problema di formazione, ma non tanto di formazione del clero, quanto piuttosto di formazione dei tecnici, di coloro che prendono le decisioni in materia.

Tali organi competenti dovrebbero avere delle regole ben precise, valide per tutti, e non lasciate al gusto personale di questo o quell’esperto. Per esempio, la prima regola, suggerita dal buon senso, dovrebbe essere che, quando si deve costruire una chiesa, ci si deve rivolgere a un architetto cristiano-cattolico-praticante-esperto in liturgia, non a un architetto qualsiasi, fosse pure di grido. Mi dite voi che senso ha far progettare una chiesa a un architetto ebreo o, addirittura, ateo? E poi ci meravigliamo che le chiese moderne sono fredde, senz’anima... Ma che volete che ne capisca di una chiesa un architetto non-credente? Per lui sarà unicamente una questione di luci e di volumi. Ancora una volta dunque si pone, sí, un problema di formazione, ma di formazione di artisti cristiani. Il principio dell’art pour l’art nella Chiesa non trova spazio; o l’arte sacra è espressione della fede (e non di una fede astratta, ma di una fede vissuta), o non è.

mercoledì 16 settembre 2009

“In questa città io ho un popolo numeroso”

Ieri avevo annunciato un seguito (e un approfondimento) ai post sull’intervista a Messori. Fra i messaggi me ne è arrivato uno dal mio ex-alunno David (che già in altre occasioni è intervenuto su questo blog), che mi sembra degno di attenzione per le riflessioni che fa:


«La mia personale esperienza/conoscenza si limita all’area arabo-musulmana, un po’ all’Est Europa e un po’ all’America Latina. Parlo di contatti con cattolici, clero e non cattolici di queste aree, con le organizzazioni ecclesiali, ecc. Beh, la prima impressione è che il ruolo della Chiesa Cattolica — specie nel Sud del mondo — sia un po’ come quello di George Baily (James Stewart) in La Vita è Meravigliosa, capolavoro di Frank Capra: tutti la schiaffeggiano e la criticano ma... che mondo sarebbe senza quella che Messori chiama spesso la Catholica? Immaginiamo per un attimo di togliere Salesiani, Comboniani e altri “papisti” dal solo Egitto, come se non fossero mai esistiti... Bene, non ci sarebbero piú operai specializzati, tecnici, la gran parte dei quadri... Sparirebbe l’intero settore commerciale (che è un prodotto dell’immigrazione cattolica italiana e libanese nell’Ottocento); milioni di adulti si troverebbero senza istruzione perché loro non sarebbero mai passati dalle scuole cattoliche o i loro maestri e insegnanti non sarebbero mai stati educati da Comboniani, Francescani, ecc. Senza gli ambulatori delle Suore Minime, quanti sarebbero sciancati, ciechi o addirittura morti? Persino... il gelato non si troverebbe piú lungo il corso del Nilo! L’Egitto oggi sarebbe come la Somalia o l’Afghanistan. Spesso non ci pensiamo neppure, ma intere nazioni dipendono dalla presenza della Chiesa Cattolica sul loro territorio. Invece che starci a piangere addosso, dovremmo considerarlo: attraverso la Chiesa e suoi figli, Dio ha veramente “ricolmato di beni gli affamati”.

Ora, l’importanza sociale della Chiesa non necessariamente corrisponde a un rafforzamento della fede nei popoli. Lo spettacolo della Spagna scristianizzata, delle sette che prosperano in Brasile e della scarsa autorevolezza dei vescovi in Francia e Germania è davanti a tutti. C’è da dire però che continueremmo a perdere fedeli se pensassimo che tutto questo dipenda da una sbagliata strategia e che si debbano progettare a tavolino nuovi piani di pastorale per i giovani, le famiglie, ecc. Credo che non argineremmo l’emorragia di vocazioni e la fuga dei giovani dalle chiese neppure se pensassimo di far rifiorire la Chiesa attraverso i vari Regnum Christi, Opus Dei, Neocatecumenali, tutte comunità molto strette e — Dio mi perdoni, ma lo voglio dire — chiuse in sé stesse. La Chiesa, forse solo il Padrone della Messe saprà farla rifiorire, come e quando Lui vorrà...

Ma se le chiese languono, i santuari mariani prosperano. Mi risulta che a Vailankanni in India — antico e glorioso santuario della Beata Vergine — vadano piú pellegrini che sul sacro Gange. Lourdes batte la Mecca 7 a 4... milioni di pellegrini. Per non parlare poi del “peso massimo” di tutti i luoghi di culto, il santuario della Morenita, a Mexico City. La Vergine di Guadalupe con i suoi 35-40 milioni di pellegrini ogni anno non ha paragoni al mondo: non c’è stadio sportivo sulla terra dove in media si rechino ogni giorno centoventimila persone! Uomini sudati e a volte un po’ in disordine, donne grasse con bambini a seguito, anziani dai volti segnati dal tempo e giovani a milioni... Spesso i nostri discorsi sulla crisi della Chiesa non tengono conto di questi eserciti, di cui — a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca — le gerarchie un po’ si vergognano... Hai mai provato a far venire una Madonna pellegrina in chiesa? In moltissimi casi fai... il tutto esaurito per giorni.

Veramente, “in questa città io ho un popolo numeroso”. Tutto sta nel trovarlo...»


Non posso che confermare quanto dice David. L’esperienza mi insegna che la presenza della Chiesa è importante non solo nei paesi cristiani, ma anche in quelli dove i cristiani sono solo una minoranza. Quel che fa la Chiesa cattolica non lo fa nessun altro. E questo tutti, chi in un modo chi nell’altro, lo riconoscono: sia quelli che apprezzano il lavoro della Chiesa e le sono riconoscenti, sia quelli che, per invidia o per paura, la combattono. Anche laddove è minoritaria, la Chiesa cattolica mostra una vitalità che nessun’altra religione può esibire. Non perché possa contare su una efficace organizzazione (giustamente il Card. Biffi considerava la Chiesa la “piú grande disorganizzazione della storia”), non perché i suoi quadri siano piú efficienti, non perché una rigida disciplina regni al suo interno, non perché adotti sofisticate strategie promozionali, ma semplicemente perché può contare su qualcosa — meglio, Qualcuno — che nessun altro possiede.

Confermo anche quanto David dice dei santuari mariani. Voi sapete che attualmente mi trovo in un paese non-cristiano. Nella città dove risiedo esiste un santuario frequentatissimo da persone di ogni credo. Davvero mi vado convincendo che Dio abbia ovunque un popolo numeroso (cf At 18:10). A parte i VIP che si convertono al cattolicesimo (prima Blair, poi Gingrich, e ora... Obama?), vedo che nei paesi non-cristiani ci sono molti che, pur non convertendosi per vari motivi, di fatto accettano il cristianesimo. L’altro giorno ho benedetto la casa di un musulmano sposato a una cristiana, felicissimo di ricevere la benedizione...

Di fronte a questa realtà, come diventano piccine le nostre sterili polemicuzze intraecclesiali! Quando ti accorgi che Dio è all’opera attraverso la sua Chiesa (una Chiesa spesso sbracata, che sembrerebbe non far molto per nascondere le proprie miserie), non puoi che dire: questa, nonostante tutti i suoi difetti, è la vera Chiesa; non c’è bisogno di ritirarsi su un monte e fondare una nuova Chiesa di perfetti, perché Dio possa rivelarsi al mondo. Lui preferisce servirsi di questa Chiesa, perché per lui qualsiasi strumento, anche il piú imperfetto, va bene; dal momento che è lui che compie la sua opera; è lui che si sceglie il suo popolo, dove vuole, quando vuole e come vuole. L’unica cosa che ci viene richiesta è di aprire gli occhi per “vedere la grazia di Dio” (cf At 11:23) che è all’opera attorno a noi.


PS: Vi consiglio di dare un’occhiata all’intervista, pubblicata su ZENIT, al Vescovo Camillo Ballin, il Vicario apostolico in Kuwait, di cui vi parlavo l’altro giorno a proposito dei filippini.

martedì 15 settembre 2009

Feedback

Ho ricevuto diversi messaggi pro e contro il mio post di ieri. L’audience poi ha avuto un’impennata inconsueta. Sinceramente, non mi aspettavo una simile reazione a un intervento che non aveva alcuna pretesa, ma voleva solo postillare l’intervista di Vittorio Messori dell’altro ieri su La Stampa.

Avevo premesso che consideravo del tutto legittime le obiezioni alle affermazioni di Messori (in quanto «opinioni personali ... che possono tranquillamente essere messe in discussione»). A maggior ragione, ritengo piú che legittimo dissentire dalle mie considerazioni, altrettanto personali e opinabili. Permettete però che aggiunga qualche parola di spiegazione, per chiarire il mio pensiero e la reale portata del mio intervento.

Innanzi tutto, vorrei che fosse ben chiaro che non avevo alcuna intenzione di polemizzare con quanti avevano espresso riserve sull’intervista di Messori né, tanto meno, con il Santo Padre. Volevo solo dire che quanto affermato da Messori, a mio modesto parere, non era del tutto campato in aria. Probabilmente neppure Messori aveva alcuna intenzione di controbattere al Papa; le sue erano semplicemente delle considerazioni generali sulla condizione reale dei vescovi in alcune parti del mondo. Le parole pronunciate dal Santo Padre sabato scorso non sono mai state in discussione né nell’intervista di Messori né nel mio post.

In ogni caso, penso che non sia molto corretto voler vedere in ogni intervento del Papa un riferimento diretto a qualcuno o a qualche situazione particolare. Benedetto XVI, com’è suo solito, “vola alto”; specialmente in una omelia, non si abbandona a polemiche spicciole. È vero che i vescovi ordinati erano tutti e cinque italiani e provenienti dalla Curia Romana; è vero che Papa Ratzinger conosce bene quell’ambiente, per esservi vissuto a lungo, e sa che il carrierismo vi è assai diffuso; sono convinto che egli si sia trovato sempre a disagio in un simile ambiente, che non era il suo (fosse stato per lui, sarebbe volentieri tornato agli studi, alla ricerca e all’insegnamento); ma non mi sembrerebbe rispettoso pensare che attenda certi momenti, come un’ordinazione episcopale, per denunciare o rinfacciare le umane miserie di chicchessia. Oltre tutto, sarebbe poco carino nei confronti degli ordinandi, che, se sono stati scelti, si suppone siano persone degne.

Il Papa dunque stava, sí, parlando a cinque vescovi italiani di Curia, ma avendo in mente tutti i vescovi della Chiesa. Messori, da parte sua, ha fatto alcune considerazioni (che probabilmente prendevano spunto dalle parole del Papa, ma non avevano alcun intento polemico nei suoi confronti) sulla situazione dei vescovi in Europa (il caso italiano è accennato solo di sfuggita), in Africa e in America Latina. Io, da parte mia, mi sono limitato a dire, basandomi anche sulla mia limitata esperienza, che, secondo me, quanto afferma Messori corrisponde a verità. Tutto qui.

Mi è stato fatto notare che il vero problema degli episcopati europei è la loro mancanza di comunione con il Papa. Sono pienamente d’accordo. Sono sempre stato convinto che all’origine della crisi della Chiesa (e della cristianità) europea ci sia una sorta di “complesso antiromano”. E questo non lo dico oggi, che la situazione si è fatta piuttosto grave; lo vado ripetendo da quando quelle comunità erano ancora fiorenti (subito dopo il Concilio); anzi, esse sembravano il futuro della Chiesa, mentre noi, poveri papalini, rappresentavamo il passato, che presto sarebbe stato spazzato via. Mi permetto però di aggiungere, tra parentesi, che anche lí dove si è tentato di correre ai ripari (come, p. es., in Olanda ai tempi di Giovanni Paolo II), la situazione non è affatto cambiata. In ogni caso, tali osservazioni nulla tolgono e nulla aggiungono alle affermazioni di Messori, che si limitano a constatare una realtà.

Semmai, ci sarebbe da notare, come ulteriore spunto di riflessione, che negli episcopati dei paesi del “terzo mondo”, tranne alcune eccezioni (specialmente in America Latina), in genere non ci sono contestazioni contro il magistero del Romano Pontefice. Ma ci sono i problemi a cui faceva riferimento Messori.

Anche a proposito del celibato, non mi sembra che Messori abbia inteso in alcun modo criticare l’attuale disciplina della Chiesa o abbia auspicato un suo mutamento; si è limitato a descrivere una realtà. Semmai, ha tentato di dare una spiegazione al fenomeno della islamizzazione dell’Africa e a quello della protestantizzazione dell’America Latina; interpretazione che però ho dichiarato esplicitamente di non condividere.

Quanto poi alla Rivoluzione francese, sono d’accordo che non le vada attribuito alcun “merito” diretto in riferimento alla purificazione della Chiesa che ad essa è susseguita (credo che anche Messori converrebbe su questo punto). Semplicemente, si trattava anche qui della constatazione di quanto oggettivamente accaduto, riconducibile, per chi crede, all’opera della Provvidenza, che sa trarre il bene anche dal male. Né voleva essere in alcun modo, almeno da parte mia, un giudizio totalmente negativo sulla cristianità dell’Ancien Régime, che avrà avuto pure i suoi limiti, ma ebbe certo anche i suoi pregi (pensiamo, tanto per fare un paio di nomi, a San Luigi Maria Grignion de Montfort in Francia o a Sant’Alfonso Maria de’ Liguori in Italia).

C’è poi anche chi mi ha scritto per approfondire ulteriormente la riflessione. Ma ne riparliamo domani.