giovedì 1 ottobre 2009

Dibattito sull'Italia e sull'Europa

Il miei post dei giorni scorsi, anche grazie alle segnalazioni di Raffaella (a cui esprimo tutta la mia riconoscenza), hanno avuto una discreta diffusione. Diversi sono stati i messaggi e i commenti di approvazione (i cui autori ringrazio cordialmente). Ma ci sono state anche alcune critiche, peraltro estremamente garbate, che accolgo piú che volentieri, perché contribuiscono ad approfondire gli argomenti trattati.

Il primo a reagire al post sulla visita del Papa nella Repubblica Ceca è stato mio fratello, che è stato recentemente a Praga, dove ha potuto constatare di persona l’indifferentismo religioso che vi regna: «Tutte le chiese erano diventate praticamente dei musei, quando non erano chiuse». Mi ha però giustamente fatto notare che quarant’anni di comunismo non si cancellano in vent’anni. Probabilmente ha ragione.

A ruota è arrivato il commento di David, a proposito dell’apostasia:

«Circa l’apostasia, credo che sia un fenomeno transitorio, già previsto dal Monfort e che alla fine il relativismo, come tutti gli “-ismi” che lo hanno preceduto, perderà la guerra ... Vedi, mentre ti scrivo, in Brasile ci sono centinaia di candidati al sacerdozio che fanno la lista d’attesa per entrare nei seminari: semplicemente, non ci sono posti per tutti e tanti devono attendere uno o due anni. Intanto, nel Sud e nell’Ovest degli USA si registra un boom di battesimi di adulti: negli stati piú evangelical e antipapisti dell’Unione, si contano a decine di migliaia i convertiti. In Cina i battesimi di adulti sono raddoppiati in appena un anno. Che dire poi di Corea del Sud e India? Nella stessa Francia Papa Benedetto XVI fu accolto da mezzo milione di fedeli in trepidante attesa. Cosí pure a Vienna e Mariazell, in Austria. Se poi alcuni di questi cattolici non vanno a messa ogni domenica... o se magari per alcuni anni si perdono (ma poi tornano, magari richiamati dalla Vergine o dai santi), perché rattristarsi e darli per passati ad altre compagnie? Non stava forse il Padre del figliol prodigo ad aspettarlo, sperando di vederlo arrivare da lontano? Se stiamo a lamentarci che tutto è finito, come potremo avere vitelli grassi da ammazzare per festeggiare il ritorno dei fratelli smarriti? L’apostasia è storia dell’altro ieri: oggi abbiamo i figli degli apostati che vagano dubbiosi per il mondo: la Chiesa non deve guardare al passato, ma al futuro».

Ammiro (e un po’ invidio) l’ottimismo di David. Io pure sono ottimista, ma nel lungo periodo, non a breve termine. Non discuto sugli esempi riguardanti altri continenti; il mio discorso concerneva l’Europa. I riferimenti alla Francia e all’Austria non mi convincono appieno. Spero di sbagliarmi...

Sulla stessa linea si situa l’intervento dell’Avv. Marcello Bolognesi, il quale però non si limita a criticare la mia posizione, ma propone anche una soluzione articolata, che forse dovremmo prendere in seria considerazione:

«Non penso che l’Europa debba per forza perire per poi risorgere. Non escludo tale eventualità, ma temo che cullarsi su tale prospettiva ci esponga al rischio che, una volta decristianizzata, l’Europa non ritorni piú necessariamente al cristianesimo, ma possa essere vittima di altre fedi e altre ideologie. Come diceva Chesterton quando l’uomo che non crede piú a Dio non è che non creda piú a niente, ma crede a tutto. Che fare, dunque? Come in tutti i grandi problemi si deve agire su piú fronti. Sono convinto che sia finita da tempo sia l’era mediatica che quella della Chiesa istituzionale.

Siamo sommersi, infatti, da informazioni mediatiche da cui non ci giunge alcuna Verità, la quale difficilmente può venire da un papa in televisione, da cardinali che si mettono in posa davanti ai fotografi e che sono troppo attenti a conservare l’8 per mille. È verosimile, invece, che l’evangelizzazione avvenga con la predicazione in parrocchia, con l’insegnamento ai giovani al catechismo e nelle scuole cattoliche, dei comunicandi, con l’ascolto di quanto emerge nelle confessioni e nei corsi prematrimoniali.

Coerentemente non dovrebbe piú accadere che un vescovo lasci chiudere le due principali scuole cattoliche cittadine senza muovere un dito, neppure rispondendo al grido di dolore dei fedeli che reclamano un suo intervento. Non dovrebbe piú accadere che alcuni gruppi di boy scouts siano fucina di atei, che ai bambini che si avvicinano alla prima Comunione non vengano piú insegnati neppure i 10 Comandamenti (sic!), perché basta riempire il quaderno di foto scaricate da internet su Gesú e dire che “Dio è amore” (cosa vera, ma è anche giustizia e rigore). Non bastano i magnifici libri del Papa (che pochi leggono e ancor meno intendono), occorre evangelizzazione e comportamenti esemplari.

E da qui si sviluppa l’ultima parte della mia riflessione, quella sulla Chiesa istituzionale. Da troppo tempo la Chiesa è arroccata sull’idea che condizionando le istituzioni civili possa avere ascendente sui fedeli secondo lo schema per cui il diritto crea la morale. Nulla di più errato. Se il messaggio morale pervade la società non vi sarà produzione normativa contraria ad esso o, comunque, i fedeli non utilizzeranno le norme immorali. Non è vero che sia piú efficace il comodo intervento in uno spettacolo televisivo piuttosto che la predicazione tra i fedeli e il comportamento che dia il buon esempio. Troppe volte si affrontano i problemi della “società” e non piú quelli della comunità dei fedeli, perché si pensa in chiave sociologica e non teologica, perché solo cosí si è moderni e politicamente corretti. Ma la correttezza politica per un cristiano sussiste solo se vi è coerenza con la parola di Dio e non con i proclami dell’Onu o del Trattato di Lisbona. Non una Chiesa militante in senso teologico della liberazione o di alcuni preti marxisti, ma una Chiesa presente tra i fedeli in carne ed ossa e non ridotta ad uno spettacolo mediatico come tutti gli altri».

Mi sembra che l’Avv. Bolognesi tocchi il nodo della questione. E in ciò facendo, non solo propone una soluzione al problema della secolarizzazione dell’Europa, ma anche a quello, posto ieri, del Progetto culturale della Chiesa italiana. Perché, in fondo, i due problemi sono collegati. Mi spiego. Finora si è voluto presentare il caso Italia come una felice anomalia in Europa. E in parte lo è: non che l’Italia non sia un paese secolarizzato, ma per lo meno la Chiesa gode di una vitalità che in altri paesi non si sognano neppure. Ebbene, finora si è attribuito il merito di tale “anomalia” alla politica del Card. Ruini; tanto è vero che, come ci ricordava in questi giorni Magister, altri episcopati europei hanno guardato a lui, con una punta di invidia, nel tentativo di riprodurre nei loro paesi la medesima strategia. Non voglio negare i meriti di Ruini; ma mi pare che l’Avv. Bolognesi abbia perfettamente ragione, quando denuncia l’atteggiamento della Chiesa italiana, che ha concentrato i suoi sforzi quasi esclusivamente sul piano istituzionale, come se questo fosse sufficiente per conservare la fede fra gli italiani. Tale intervento della Chiesa sulle istituzioni dà l’impressione che la Chiesa sia realmente presente nella società. Ma talvolta tale presenza è piú una presenza mediatica che reale. E non è certamente questo tipo di “presenza” che spiega l’anomalia italiana: l’Italia si distingue dagli altri paesi europei non perché in essa sia stato promosso il Progetto culturale, ma perché ci sono ancora, grazie a Dio, un esercito di parroci e di suorine che tengono viva la fede con la loro attività pastorale ordinaria, spesso carente, ma ancora abbastanza capillare.

Ed è proprio questo l’aspetto su cui, secondo l’Avv. Bolognesi, bisognerebbe far convergere tutte le energie. Come non dargli ragione? Oggi siamo tutti presi dalla carriera, dalla visibilità sui media, dalle discussioni sui massimi sistemi, e trascuriamo il lavoro pastorale spicciolo: predicazione, catechesi, amministrazione dei sacramenti, direzione spirituale, educazione, insegnamento (oh, certo, abbiamo docenti universitari a non finire; ma chi si mette a insegnare alla scuola media o al liceo?). Non che tali attività non esistano nelle nostre parrocchie e scuole; ma, in genere (spesso — va detto — perché costretti), siamo portati a delegare ad altri (mamme o giovani che fanno il catechismo, docenti laici nelle scuole cattoliche, insegnanti di religione nelle scuole statali), e noi sacerdoti ci riduciamo a fare i manager, spesso perdendo il contatto diretto con la gente.

A questo punto, un altro avvocato, amico del precedente, Alberto, che di tanto in tanto interviene su questo blog, aggiunge, a mo’ di corollario, un altro aspetto importante, senza il quale tutto il discorso precedente rimarrebbe lettera morta:

«Mi sembra un’ottima proposta che — a ben vedere — collima con la scelta del Papa di indire l’anno sacerdotale e di additare ad esempio San Giovanni Maria Vianney, il Curato d’Ars, che ha passato la vita a confessare. Però, per fare questo, sarebbe necessaria anche una riforma dei seminari. Non è certo un processo semplice. Potrebbe essere un’idea quella di proporre che i migliori sacerdoti vadano, anziché a fare i Nunzi o i segretari di Conferenze episcopali, a dirigere i seminari».

Non voglio entrare nel merito, perché non si finirebbe piú. Ma mi sa tanto che i nostri cari avvocati abbiano proprio ragione: o la smettiamo di rincorrere le nostre umane ambizioni e riscopriamo la gioia di vivere nella semplicità il nostro sacerdozio a servizio della gente, o l’Italia e l’Europa diventeranno sempre piú secolarizzate e a nulla varranno i nostri sofisticatissimi Progetti culturali.