martedì 17 novembre 2009

Di ritorno dall'Asia

Vi avevo detto che ho terminato la mia esperienza missionaria in Asia e sono tornato in Italia. Vorrei riferirvi brevemente di questa esperienza, perché potrebbe essere interessante. Forse, chiamarla “missionaria” è un po’ eccessivo: il motivo per cui sono andato in Asia era principalmente la formazione dei nostri candidati alla vita religiosa. Soprattutto per motivi di comunicazione (e anche per altri motivi che vi dirò), non è che si potesse fare molto di piú.

Come sapete, ho trascorso cinque anni nelle Filippine, in due riprese: dal 2003 al 2005 e poi dal 2006 al 2009. Le Filippine, a rigor di termini, non sono “terra di missione”, essendo un paese (l’unico in Asia!) a stragrande maggioranza cattolico; ma i sacerdoti stranieri vengono comunemente (e anche legalmente) considerati “missionari”. Sono andato nelle Filippine, quando ero assistente generale dell’Ordine, per aprire lí il nostro seminario teologico. Come molti altri istituti religiosi, anche la nostra Congregazione si è recata nelle Filippine (quest’anno ricorreva il ventesimo anniversario di fondazione) per far fronte alla penuria di vocazioni. Il Signore ci ha benedetto con una grande abbondanza di seminaristi. Per diversi anni, questi, dopo il noviziato svolto in patria, venivano in Italia per lo studio della teologia; ma, a un certo punto, ci siamo resi conto che era meglio che svolgessero tutta la formazione nel loro paese (lo stesso si fece per i latinoamericani e gli africani). Per questo, nel 2003, decidemmo la costituzione di un nuovo studentato teologico, il “Saint Paul Scholasticate”, a Tagaytay, una città in un’incantevole posizione, a una cinquantina di chilometri a sud di Manila. In mancanza di personale disponibile, mi trasferii in loco per la realizzazione del progetto: avvio del seminario in una casa presa in affitto dai Verbiti; acquisto di un terreno; costruzione del nuovo studentato. Quando la nuova struttura fu conclusa, pochi giorni dopo la sua inaugurazione, il Padre Generale mi richiamò a Roma per la preparazione del Capitolo generale (2006). Dopo il Capitolo, ridiventato “privato cittadino”, mi fu chiesto di tornare nelle Filippine e riprendere la conduzione dello studentato, dove sono rimasto fino all’aprile di quest’anno. Attualmente esso è diretto da padri filippini e conta oltre venti studenti professi teologi (a essi vanno aggiunti una dozzina di novizi e una quarantina di aspiranti).

L’esperienza filippina è stata molto bella; non ho fatto alcuna fatica ad adattarmi. Le Filippine sono un ambiente assai accogliente, dove ci si sente a proprio agio. I filippini, li conoscete: sono persone riservate, rispettose, gentili e amabili. E poi sono cattolici, con uno spiccato senso religioso (che forse talvolta rischia di sconfinare nella superstizione). Hanno un grande rispetto per la Chiesa e, in particolare, per i sacerdoti. Tale rispetto si traduce pure in leggi particolarmente favorevoli alla Chiesa. Le Filippine sono un paese laico, ma di una laicità positiva, del tutto aliena dalle tendenze anticlericali presenti in Europa. L’unico problema per noi missionari stranieri è quello della lingua: l’inglese, pur essendo una delle lingue ufficiali, è parlato solo da un’élite; per comunicare con la gente bisognerebbe studiare le lingue locali (che per fortuna non sono affatto difficili), ma io non ho avuto abbastanza tempo per farlo (anche se celebravo la Messa in tagalog).

Quest’anno Padre Generale mi ha chiesto di trasferirmi in India, dove nel frattempo (due anni fa) la Congregazione aveva aperto una nuova fondazione. Il mio predecessore era stato costretto a lasciare il paese, accusato di proselitismo. Finora non avevo rivelato la mia residenza, per evitare che si ripetesse la stessa avventura; che invece si è ripetuta anche per me; per cui, allo scadere del mio visto (turistico) semestrale, ho dovuto lasciare il paese. Ora c’è lí un sacerdote indiano con una dozzina di seminaristi (oltre quattro indiani che tanno facendo il noviziato nelle Filippine). La nostra fondazione è a Bangalore, capitale dello stato del Karnataka, nel sud del paese. Bangalore è una grande città, centro mondiale dell’informatica. È considerata una specie di “Vaticano” dell’India, perché vi sono presenti un po’ tutti gli istituti religiosi; ma nello stato i cristiani sono una infima minoranza e spesso perseguitati: ogni tanto viene ucciso qualche prete; spesso le chiese sono profanate; gli stranieri sono tenuti sotto controllo. C’è al potere il partito fondamentalista indú BJP (mentre a livello nazionale governa il Partito del Congresso di Sonia Gandhi).

L’esperienza in questo tipo di ambiente non è stata facile: come “turista” non potevo fare nulla; avrebbero voluto che neppure facessi lezione ai seminaristi (in casa) o addirittura che non predicassi durante la Messa. Eppure è stata un’esperienza importantissima per me, perché era la prima volta che mi trovavo a vivere in un paese non-cristiano. E lí ho potuto rendermi conto della vitalità della Chiesa e della forza del Cristianesimo. E mi par di capire che è proprio questo che provoca la reazione anticristiana: hanno paura che il Cristianesimo abbia il sopravvento. E hanno ragione ad aver paura, perché sono convinto che, prima o poi, l’India diventerà un paese cristiano: ci sono molti indú e musulmani che, pur non convertendosi per motivi di convenienza, sono intimamente convinti della verità del Cristianesimo (tanto per farvi un’idea, date un’occhiata a questa notizia dell’altro giorno su AsiaNews). A Bangalore c’è il piú importante santuario mariano, la Saint Mary’s Basilica, che sorge nel bel mezzo del quartiere musulmano, ed è frequentato da tutti: cristiani, induisti e musulmani. Tutti hanno un grande rispetto e devozione verso la Madonna. Nel nord del paese ci sono degli stati che stanno diventando completamente cristiani. Voi capite che tutto ciò crea inquietudine fra i fondamentalisti, che vorrebbero che l’India fosse un paese indú (non lo è mai stato, essendo sempre stato un paese multietnico e multireligioso, e cosí lo voleva Gandhi; ma la divisione con il Pakistan ha creato l’idea che questo dovesse essere uno stato islamico e l’India un paese indú).

Naturalmente, anche la Chiesa indiana ha i suoi problemi: soprattutto, le divisioni tra diversi riti (latino, malabarese e malankarese), diverse lingue (a Bangalore, la diocesi vuole che si usi la lingua locale, il kannada; ma la maggior parte dei cattolici sono tamil con consistenti minoranze di malayalee del Kerala; e lo stesso Arcivescovo è di lingua konkani, la lingua di Goa: potete immaginare che caos!) e diverse caste (ancora ufficialmente esistenti in alcuni stati). Eppure, nonostante le difficoltà, la Chiesa appare forte e in piena espansione: lí si ha la chiara riprova che la vitalità della Chiesa non dipende dai nostri sforzi umani, ma dalla grazia di Dio.

Ora torno alle mie consuete attività, ma con una coscienza piú viva dell’universalità della Chiesa, che mi aiuta a ridimensionare i nostri piccoli problemi di ogni giorno e ad affrontarli in una luce totalmente nuova.