martedì 26 gennaio 2010

Fedeltà al Concilio

Mi ha colpito molto la notizia, riportata da Sandro Magister, delle dimissioni del direttore della Cappella musicale (qui) e dell’intero coro (qui) della Cattedrale di Cremona. Non sono cose che accadono ogni giorno; si tratta di un fatto di una gravità eccezionale; ma spero che, perlomeno, serva a provocare una riflessione su quanto è avvenuto e sta avvenendo nella Chiesa dopo la riforma liturgica promossa dal Vaticano II.

Non sono un nostalgico della liturgia tridentina, e perciò non coglierò l’occasione per dare addosso alla riforma liturgica e per auspicare un ritorno, sic et simpliciter, alla liturgia preconciliare. Però non si può neppure far finta di niente, e liquidare quanto è successo come il mal di pancia di un gruppo di esteti nostalgici, che non si rassegnano ad adeguarsi ai tempi nuovi.

Semmai, l’incidente cremonese potrebbe essere l’occasione per fermarci un attimo a “ripensare” la riforma liturgica, non necessariamente per giungere alla conclusione che si renda necessaria una “riforma della riforma”, ma semplicemente per fare un bilancio e chiederci: Come è stata attuata? È stato realmente fatto ciò che il Concilio prescriveva? C’è stato qualcosa che non ha funzionato? Domande piú che legittime a quasi cinquant’anni dall’inizio della riforma.

Il punto di riferimento per tale valutazione rimane, ovviamente, la Costituzione Sacrosanctum Concilium, promulgata al termine della terza sessione del Concilio, il 4 dicembre 1963. Soffermiamoci, per il momento, sull’aspetto musicale, ma ricordandoci che il discorso potrebbe — e dovrebbe — essere allargato a tutti gli altri aspetti. Ebbene, che cosa diceva il Concilio a proposito della musica sacra? Andatevi a rileggere il capitolo VI della Sacrosanctum Concilium: penso che chiunque, anche il piú prevenuto verso il Vaticano II, sia costretto a riconoscere che si tratta di un piccolo capolavoro. C’è qualcuno che non è d’accordo con quanto il Concilio affermava? Eppure, che ne è stato di quelle sagge norme? Praticamente sono rimaste lettera morta; la riforma liturgica, quella che di fatto è stata attuata, ha semplicemente ignorato il Concilio; ha seguito un’altra strada, a cui il Concilio non aveva neppure accennato: si è ripartiti da zero, come se non esistesse alcuna tradizione musicale; nella liturgia sono state ammesse solo nuove composizioni, il piú delle volte di scarso o punto valore. Ciò che era importante era la novità; tutto il resto — gregoriano, polifonia, canto popolare — semplicemente da rigettare. Che cosa c’era dietro tale atteggiamento? È ovvio: la mentalità secondo cui il “Concilio” (ma quale Concilio?) segnava un “nuovo inizio”, una “svolta” nella storia della Chiesa (“ermeneutica della discontinuità e della rottura”).

Appare in maniera evidente che la “riforma liturgica”, cosí come è stata attuata, non risponde in buona parte alle indicazioni del Concilio. Qualcosa non ha funzionato. Diciamo che la situazione è sfuggita di mano. Di chi è la colpa: del Concilio, di Paolo VI, di Mons. Bugnini? Personalmente penso che non serva a niente ora star lí a recriminare e a distribuire pagelle ai protagonisti della riforma. Molto piú utile mi sembra prendere atto della situazione e cercare di correre ai ripari.

Già, correre ai ripari. C’è già chi dice: basta tornare alla liturgia, cosí com’era prima del Concilio. Non mi sembra una proposta che risolva il problema. Qualcun altro sostiene che sia necessario a questo punto procedere a una “riforma della riforma”. Sí, forse; la cosa non è da escludersi a priori. Ma se, prima di procedere a delicatissime e rischiosissime riforme di riforme, provassimo ad attuare la riforma liturgica come l’aveva pensata il Vaticano II, non sarebbe tutto piú facile?

Tornando alla questione iniziale, se provassimo a reintrodurre nella liturgia il canto gregoriano (nel frattempo, per fortuna, i monaci hanno lavorato sodo e ci hanno messo a disposizione tutta una serie di strumenti con cui possiamo cantare la nuova liturgia in gregoriano, senza bisogno di ricorrere piú al benemerito Liber usualis), un po’ di polifonia (riconosco che non sempre è possibile trasferire certe magnifiche messe nella nuova liturgia) e un po’ di sano canto popolare; se provassimo a reintrodurre il suono dell’organo; se provassimo a riappropriarci della nostra tradizione musicale, la liturgia — quella rinnovata intendo, non quella tridentina — non avrebbe tutto da guadagnarci? È ovvio che anche dietro tale proposta c’è una mentalità: l’ermeneutica della continuità.

Vedo già qualcuno pronto a gridare alla “restaurazione”. Personalmente, la riterrei piutttosto una operazione di fedeltà al Concilio e di rivalorizzazione del nostro patrimonio musicale. Dice giustamente la Sacrosanctum Concilium all’inizio del capitolo dedicato alla musica sacra: «La tradizione musicale di tutta la Chiesa costituisce un tesoro di inestimabile valore, che eccelle tra le altre espressioni dell’arte, specialmente perché, come canto sacro applicato alle parole, è parte essenziale o integrante della liturgia solenne» (n. 112).

Oltre tutto, si tratta di una operazione non impossibile, visto che ci sono già a disposizione forze professionalmente attrezzate per attuarla. Anziché lasciarle vagabondare per le sale-concerto, non sarebbe il caso di arruolarle in questa opera di recupero della liturgia?

giovedì 21 gennaio 2010

Ermeneutica della riforma

Nel memorabile discorso del 22 dicembre 2005 alla Curia Romana, commemorando i quarant’anni del Vaticano II, Benedetto XVI sostenne che i problemi di recezione del Concilio dipendono dal fatto che esso è stato interpretato secondo due ermeneutiche contrapposte: «Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura” ... Dall’altra parte c’è l’“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa».

Tale distinzione è stata contestata, con un certo fondamento, da Joseph A. Komonchak (“Benedetto XVI e l’interpretazione del Vaticano II”: Chi ha paura del Vaticano II, a cura di A. Melloni e G. Ruggieri, Carocci, Roma, 2009): «Si resta subito colpiti dalla eccentricità dei nomi dati a questi due concorrenti orientamenti. In contrapposizione a quello che insiste sulla discontinuità ci si sarebbe infatti aspettati un’“ermeneutica della continuità o della fedeltà”. Similmente, in contrapposizione ad un’“ermeneutica della riforma”, ci si sarebbe aspettati che l’altra venisse presentata come “un’ermeneutica della rivoluzione”. Invece troviamo messe in tensione “discontinuità” e “riforma”, come se fossero necessariamente contrastanti» (pp. 71-72). In linea di principio, Komonchak ha ragione; ma è ovvio che, dietro le sue disquisizioni logiche, si nasconde un problema ideologico non indifferente, che infatti viene a galla immediatamente: «Che esse non siano necessariamente in contrasto è chiaro d’altra parte dalla semplice osservazione che una genuina riforma implica di per sé alla fine una discontinuità: qualcosa deve cambiare laddove c’è una riforma» (p. 72). Anche qui sembrerebbe che Komonchak affermi una ovvietà; eppure le cose non sono cosí semplici come il professore dell'Università Cattolica di Washington vorrebbe farci credere.

Solitamente, siamo portati a catalogare il termine “riforme” nel vocabolario della “sinistra moderata” (i cosiddetti “riformisti”, in contrapposizione ai “rivoluzionari” della sinistra estrema). A nessuno passerebbe mai per la mente che il concetto di “riforma” possa in qualche modo essere imparentato con la “destra” (dove possono esistere solo “conservatori”, “tradizionalisti” e “reazionari”, i quali per definizione sono per la conservazione dello statu quo e quindi contro qualsiasi riforma). Questo è ciò che gli schemi ideologici correnti ci obbligano a pensare. Allora — direte voi — liberiamoci di tali schemi e sforziamoci di guardare alle cose con oggettività. Sí, sarebbe auspicabile; ma siccome so già che qualcuno potrebbe contestare la possibilità stessa di oggettività e sostenere che è inevitabile essere condizionati da schemi soggettivi, sceglierò un altro schema (visto che tutto è soggettivo, dove sta scritto che quegli schemi sono gli unici possibili?): uno schema seguendo il quale si raggiungeranno conclusioni opposte. Lo schema ideologico che scelgo è quello che divide gli uomini fra “ottimisti” e “pessimisti”.

Gli “ottimisti” sono coloro che considerano la storia come un continuo, irrefrenabile progresso, il piú delle volte indipendente dalla volontà umana (determinismo). All’origine di questa mentalità c’è una filosofia della storia ispirata all’illuminismo, all’idealismo, al positivismo e all’evoluzionismo. I “pessimisti” sono quelli che considerano la storia come una continua decadenza rispetto a una mitica “età dell’oro”, identificata con le origini. Penso che ciascuno di noi possa facilmente identificarsi in uno di questi due gruppi. Sia ben chiaro che tale distinzione non è intercambiabile con quella — meramente politica — di “destra” e “sinistra”.

Ebbene, se adottiamo lo schema “ottimisti”/“pessimisti” o “progresso”/“decadenza”, ci accorgeremo che il concetto di riforma non appartiene agli “ottimisti”, ma ai “pessimisti”. Sempre, nella storia, i “riformatori” si sono presentati come quelli che criticavano il presente, considerato decaduto rispetto al passato, e auspicavano una qualche forma di “ritorno alle origini”. Anzi, approfondendo il discorso, ci accorgeremo che anche un’altra categoria che oggi va per la maggiore — quella di profezia — appartiene esattamente all’ideario dei “pessimisti”: nella storia di Israele, i profeti non sono mai stati dei rivoluzionari, ma semmai dei “nostalgici” dei bei tempi andati, e hanno sempre auspicato un ritorno al passato (si veda in proposito il saggio di Norbert Lohfink, I profeti ieri e oggi, Queriniana, Brescia, 1967).

A questo punto potremmo porci il problema: usando questo schema, da quale parte poniamo il Concilio Vaticano II? Certo, nella visione degli “ottimisti”, esso segna una tappa — non necessariamente in discontinuità col passato — dell’irrefrenabile cammino della Chiesa verso il suo “Punto Omega” (per usare un’espressione cara a Teilhard de Chardin). Può darsi che tale mentalità sia presente, almeno parzialmente, all’interno del Vaticano II, ed è senz’altro presente in molti dei suoi interpreti. Ma — potremmo chiederci — è stata questa l’autocomprensione che il Concilio ha avuto di sé stesso? Avrei qualche perplessità a rispondere affermativamente.

Non voglio escludere che nel Vaticano II sia presente, almeno in qualche passaggio, una mentalità “evoluzionistica”. Sono per altro note le accuse, rivolte al Concilio, di discontinuità e di rottura con la tradizione precedente; accuse che andranno prima o poi vagliate attentamente. Ma nell’insieme, almeno nelle intenzioni, a me pare che il Vaticano II si muova nel campo opposto, quello di chi guarda al presente della Chiesa (il “presente” di cinquanta anni fa) come in qualche modo distante (perché gradualmente allontanatosi) dall’“archetipo” (la Chiesa delle origini) e quindi bisognoso di “riforma”.

Prendiamo l’esempio della liturgia. Noi di solito parliamo, giustamente, di “riforma liturgica”, ma la Costituzione Sacrosanctum Concilium usa un termine ancora piú forte, che non lascia adito a dubbi: instauratio, che in italiano significa letteralmente “restaurazione”. La liturgia, secondo il Concilio, va restaurata, va cioè riportata alla sua bellezza originaria. È evidente il rischio sotteso a tale visione: quello dell’“archeologismo”, l’illusione cioè di tornare a un passato ideale, totalmente astratto, ignorando il cammino compiuto attraverso i secoli. È forse per questo motivo che la Sacrosanctum Concilium, per lo piú, accompagna il verbo instaurare con il verbo fovere, quasi a dire che non si tratta solo di tornare indietro, ma di andare avanti, incrementando, favorendo, migliorando ciò che già esiste. E forse è per questo motivo che il Santo Padre, nel suo discorso alla Curia Romana, usa il termine “riforma” come sinonimo di “rinnovamento nella continuità”.

Credo che l’atteggiamento del Concilio verso la liturgia possa essere considerato in qualche modo paradigmatico: l’attitudine “restauratrice” (so bene le reazioni che l’uso di tale espressione può provocare nell’animo di quanti si lasciano condizionare dagli schemi ideologici correnti, ma spero che si sappia andare oltre le risonanze emotive) è quella che ha ispirato il Concilio; si trattava di riportare la Chiesa al suo primitivo splendore.

È vero che il Vaticano II fa uso anche di altre espressioni. Per esempio, a proposito della vita religiosa parla di renovatio, giustamente tradotto con “rinnovamento”. Solo che renovare, in latino, molto spesso non è altro che un sinonimo di instaurare. Non mi pare un caso che il decreto Perfectae caritatis (n. 2) esorti i religiosi a un «continuo ritorno alle fonti di ogni vita cristiana e allo spirito originario degli istituti» (a voler essere pignoli poi si potrebbe notare che le traduzioni italiane tralasciano sistematicamente l’aggettivo da cui la parola renovatio è sempre accompagnata: “accomodata renovatio vitae religiosae”).

Ha dunque sbagliato Benedetto XVI a parlare di “ermeneutica della riforma” a proposito del Vaticano II? Niente affatto; anzi mi pare che, usando tale espressione, egli abbia colto perfettamente il vero spirito del Concilio: il Vaticano II non ha voluto in alcun modo essere una rottura col passato né, tanto meno, un “nuovo inizio” nella storia della Chiesa; esso, molto piú modestamente, si è prefisso solo di “riformare” la Chiesa, adattandola certo alle mutate condizioni dei tempi, ma sforzandosi soprattutto di riportarla alla sua originaria fisionomia.

martedì 19 gennaio 2010

Un problema fantasma?

Un lettore mi chiede un parere sul post del 7 gennaio 2010 apparso sul blog di Matias Augé dal titolo Una opinione sull’attuale dibattito liturgico. Si tratta di una lettera scritta al Padre Augé da un suo confratello, missionario da 35 anni (prima nelle Filippine, poi a Cuba, ora nella Repubblica Dominicana), nella quale si contesta, con accenti — diciamo — piuttosto vivaci, l’esistenza stessa di un problema liturgico nella Chiesa (“un problema fantasma”). Nella sua esperienza, Padre Carmelo — questo il nome del missionario clarettiano — sostiene di non aver mai incontrato “un solo cristiano” che chiedesse la Messa tridentina; di non aver mai ricevuto “neppure una sola istanza” in tal senso.

Ho già in qualche modo affrontato lo stesso problema alcuni mesi fa nel post Auditel liturgico e “riforma della riforma”, in cui si commentava il sondaggio informale condotto da Padre Augé sulla stessa tematica. Non posso quindi che rinviare alle considerazioni che facevo in quella sede. Anche nel caso del Padre Carmelo, non ho alcuna difficoltà a credere a quanto da lui affermato. Non posso contare sulla sua lunga esperienza missionaria, ma il mio, di gran lunga piú breve e limitato, soggiorno nelle Filippine e in India mi porta piú o meno alle medesime conclusioni: effettivamente non esiste in questi paesi (e, per analogia, suppongo, nel resto del “terzo mondo”) un problema della liturgia tridentina; la liturgia va bene cosí com’è. Concordo con Padre Carmelo che in questi paesi si celebra la Messa “degnamente”, senza gravi abusi; le liturgie sono in genere molto vivaci e partecipate; e anche chi, come me, è sensibile alla bellezza della liturgia latino-gregoriana, non può rimanere indifferente di fronte a certe celebrazioni forse non altrettanto ieratiche, ma certo intensamente partecipate dai fedeli. Del resto, lo stesso Santo Padre non ha confessato forse di essere rimasto ammirato dalle liturgie da lui presiedute nel suo ultimo viaggio in Africa?

Non concordo con Padre Carmelo su due punti. Il primo è la categoricità delle sue affermazioni: “ni un solo cristiano”, “ni una sola instancia”. Io sarei un tantino piú cauto: se è vero che il problema non è cosí sentito come sembrerebbe nei nostri paesi occidentali, non è vero che nel “terzo mondo” non ci sia nessuno che lo sente. Giustamente in uno dei commenti si puntualizza che «in Brasile la sensibilità e la richiesta sono molto forti»: sarà un caso che l’unica amministrazione apostolica di rito tridentino non è in Francia, non è in Europa, ma in Brasile? Anche nelle Filippine ci sono alcuni gruppi che celebrano secondo la forma straordinaria. È vero che si tratta di gruppi minoritari, ma esistono!

E qui vengo al secondo appunto che muovo al post del Padre Carmelo: il linguaggio che riserva appunto a tali gruppi. Per me, dire che si tratta di “gruppi minoritari” sarebbe piú che sufficiente; non vedo che bisogno ci sia di procedere a ulteriori apprezzamenti, che nulla aggiungono al dato oggettivo, ma servono solo per invelenire i rapporti tra fratelli di fede: “una minoranza assolutamente insignificante e ridicola”; “persone squilibrate che vivono fuori della realtà”; “menti malate (calenturientas = “febbricitanti”) e retrograde che vivono fuori della realtà”; “movimento di involuzione nervosa e isterica”. D’accordo che in certi casi si possa ricorrere anche a un linguaggio un po’ colorito; ma in questo caso mi sembra che si venga meno alla carità cristiana: mi chiedo a che cosa si riduca il Vangelo, quando lo trasgrediamo in maniera cosí palese. A che serve parlare di apertura, di comprensione, di dialogo, di ecumenismo con i “lontani”, quando poi non abbiamo nessun rispetto per quelli che sono di casa? In certi momenti si ha davvero l’impressione che il cristianesimo sia stato ridotto a pura ideologia...

Potrei fermarmi qui; ma vorrei aggiungere qualcosa, entrando nel merito della questione sollevata. I lettori dovrebbero conoscere la mia posizione in materia liturgica; chi volesse farsene un’idea può andare a leggersi il post If only... Praticamente, io sono convinto che, se la riforma liturgica fosse stata realizzata come il Concilio l’aveva concepita e se poi essa fosse stata attuata seguendo fedelmente le norme previste nei libri liturgici, probabilmente ora non ci sarebbe nessun nostalgico della vecchia liturgia.

Questa convinzione non è stata affatto intaccata dalla mia sia pur breve esperienza missionaria. È vero che nei paesi del “terzo mondo” nessuno va in cerca della Messa tridentina (per quanto almeno un paio di volte mi sia stata richiesta); ma devo anche dire che tutte le volte che ho celebrato la Messa in latino (quella di Paolo VI) non ho mai incontrato alcun rifiuto. Anzi... È ovvio che nessuno chieda la celebrazione secondo l’uso antico: la maggior parte della gente non sa neppure che esista; ma quando partecipano a una bella Messa cantata in latino, ne rimangono anche loro affascinati.

Qualche volta mi ponevo il problema se celebrare in latino per popoli cosí lontani da Roma non fosse una sorta di “violenza”; me lo chiedevo soprattutto al momento della comunione, quando presentavo loro l’ostia consacrata dicendo “Corpus Christi” anziché “Ang Katawan ni Kristo”. Ma poi mi dicevo: Perché dovrebbe essere una violenza dire “Corpus Christi”, quando nessuno ha nulla da eccepire se dico in inglese (che non è la loro lingua) “The Body of Christ”? E sono giunto alla conclusione che, non solo non era una violenza, ma, al contrario, era loro diritto sentirsi dire “Corpus Christi”.

Sono convinto che la riforma liturgica, cosí come è stata attuata (anche con le deroghe — sanzionate da Paolo VI — alla lettera della Sacrosanctum Concilium, p. es. riguardo alla lingua liturgica), sia stata provvidenziale. Come affermavo nel post citato all’inizio, la Chiesa percepiva che il suo futuro si sarebbe giocato non piú in Europa, ma in altre parti del mondo; e per questo ha sentito il bisogno di mettere la liturgia alla portata di tutti. Ma con ciò non ha voluto in alcun modo cancellare la liturgia solenne in latino e in canto gregoriano, anzi ha voluto restaurarla e renderla ancora piú bella di quanto già non fosse (ermeneutica della continuità...). Per cui dobbiamo ammettere che non esiste piú (o forse non è mai esistita) una sola liturgia, uniforme e monolitica, ma molte varietà liturgiche con diversi gradi di solennità. A questo proposito, l’Institutio generalis de Liturgia Horarum parla assai opportunamente, al n. 273, di un “principio di solennizzazione progressiva” che, secondo me, può applicarsi a tutta la liturgia. È ovvio che, secondo tale principio, le forme meno solenni sono un momento propedeutico a quelle piú solenni; ed è un diritto dei fedeli poter partecipare, almeno in alcune occasioni, a una celebrazione solenne della liturgia romana. Ed è nostro dovere, come pastori, educare i fedeli perché possano esercitare tale diritto. La mia concezione di educazione non è mai stata quella del docente che si abbassa al livello del discente (anche se questo va in ogni modo fatto), ma piuttosto quella del docente che, dopo essersi abbassato, innalza il discente al proprio livello.

Che poi si debba fare i conti con la realtà, è un’altra questione. Ha ragione Padre Carmelo a dire che nel terzo mondo i preti non conoscono piú il latino. Non solo nel terzo mondo — aggiungo io — e non solo i preti... Ma anche qui si tratta del risultato di precise scelte (spesso ideologiche) che sono state fatte in passato. Ma, per quanto questa sia la realtà, non possiamo arrenderci: sono situazioni che possono cambiare; basta la “volontà politica”: non è impossibile insegnare il latino ai seminaristi, dovunque essi si trovino; basta volerlo. Non è questa un’affermazione astratta, ma il frutto di un’esperienza vissuta.

sabato 9 gennaio 2010

Informati?

Il rientro in Italia, dopo anni trascorsi nel cosiddetto “terzo mondo”, si sta rivelando non cosí facile come ci si sarebbe aspettati. È vero che viviamo in un mondo ormai globalizzato, per cui le tradizionali categorie di “primo” e “terzo” lasciano il tempo che trovano: soprattutto internet ha bruciato ormai le distanze, per cui, dovunque ti trovi, puoi accedere all’informazione — a qualsiasi tipo di informazione — “in tempo reale”. Però devo dire che riprendere a vedere quotidianamente il telegiornale e a leggere i giornali (quelli reali stampati sulla carta, non quelli virtuali online) fa un certo effetto.

Normalmente seguo il TG2 delle 20.30, e sinceramente non posso lamentarmi: mi sembra un telegiornale fatto con una certa professionalità (la stessa informazione religiosa non vi è trascurata). Oltre all’Avvenire, ho ripreso a leggere anche il Corriere della sera. Anche qui, nulla da ridire: si potrà discutere sulle idee espresse in questo o quell’articolo; ma, tutto sommato, si tratta di quotidiani seri, che perlomeno si sforzano di essere equilibrati. Quindi non ce l’ho né col TG2 né col Corriere; ma è il mondo dell’informazione in quanto tale (e, piú in generale, il mondo in cui viviamo, di cui giornali, radio e TV sono soltanto lo specchio) che mi lascia alquanto perplesso. Vi faccio qualche esempio, che ha attirato la mia attenzione in questi due mesi, da quando sono tornato.

Primo esempio: la febbre suina. Nei giorni del mio rientro non si faceva altro che parlare di influenza A: sembrava che da un giorno all’altro dovessimo tutti ammalarci; ogni giorno la televisione ripeteva che non c’era motivo di preoccuparsi; ma, a forza di ripeterlo, non faceva altro che diffondere il panico. Continuavano a insistere che bisognava vaccinarsi, e infatti lo Stato ha provveduto a rifornirsi di abbondanti scorte di vaccino. Che cosa è successo? Gli italiani, piú saggi di politici e giornalisti, se ne sono infischiati dell’ingiustificato allarmismo, non si sono fatti vaccinare, e le dosi di vaccino sono rimaste nei depositi, tanto che qualche politico ha lanciato il sospetto che sia stata tutta una montatura delle case farmaceutiche per vendere il vaccino. E della suina nessuno piú parla.

A inizio dicembre si è svolta a Copenaghen la 15ª Conferenza dell’ONU sul cambiamento climatico. È da anni che continuano a lavarci il cervello col “riscaldamento globale”: non è bastato che nell’imminenza della Conferenza qualcuno fosse riuscito a intercettare messaggi email che dimostravano la manipolazione dei dati diffusi; ma proprio nei giorni della Conferenza l’Europa veniva attanagliata dal freddo, un freddo che non si vedeva da anni e che non accenna a diminuire. Ma non importa: la parola d'ordine rimane “riscaldamento globale”

C’è poi l’isteria scatenata dal fallito attentato di Natale sul volo Amsterdam-Detroit, che avrà come risultato un ulteriore restringimento delle misure di sicurezza negli aeroporti (come se non fossero già abbastanza severe e spesso irritanti). Come mai — mi chiedo — le sofisticatissime macchine, che riuscivano a scoprire una innocua bomboletta di schiuma da barba nel bagaglio, non sono state in grado di rilevare esplosivo... nelle mutande? No, adesso ci vuole il body scanner! E tutti a dire: sí, è giusto; per la sicurezza siamo disposti anche a spogliarci completamente. Senza voler dare credito alle teorie complottiste, secondo cui gli Stati Uniti starebbero cercando pretesti per intervenire nello Yemen (mi sa tanto che sia stata un’ottima idea dare il premio Nobel per la pace preventivo a Obama, cosí prima di scatenare un’altra guerra ci penserà due volte), viene il sospetto che siano state le ditte costruttrici del body scanner a organizzare il fallito attentato natalizio...

Direte che sono un superficiale, un qualunquista incapace di considerare la complessità della realtà. Sarà anche vero; ma che posso farci se gli “operatori della comunicazione” non riescono a convincermi con i loro allarmi? Anche perché in altri casi mi convincono e come! Come per esempio quando, sotto Natale, mi parlavano dei lavoratori che stanno perdendo il posto di lavoro; o come ieri sera, quando mi parlavano degli scontri di Rosarno. Queste sí che son tragedie!

Ma il colmo della ridicolaggine è stato ieri sera il programma Mistero su Italia 1, che si è occupato delle profezie maya sul 2012. Non voglio qui entrare nel merito della questione, di cui si è già occupato in maniera esauriente Massimo Introvigne (vedi qui); quel che mi interessa è il modo in cui se ne è parlato: sono stati chiamati a disquisire sul tema una “esperta di profezie maya”, un “giornalista” e... Alessandro Cecchi Paone (senza ulteriori qualifiche), i quali naturalmente parlavano non solo della fine del mondo per il 21 dicembre 2012, ma anche della pretesa profezia maya come di cosa certa, senza portare mai uno straccio di prova. E questa sarebbe informazione corretta? E questo sarebbe il mondo uscito dalla rivoluzione scientifica? E poi accusano la Chiesa di oscurantismo medievale? Ma gli studiosi medievali, in confronto a certi “esperti” postmoderni erano campioni di rigore scientifico!

Beh, diciamo che mi trovo un po’ disorientato: si tratterà forse dello stordimento che segue al cambiamento di ambiente; ci sarà bisogno di un po’ di adattamento. Speriamo bene. Ma certo la prima impressione non è proprio delle migliori...

sabato 2 gennaio 2010

Rieccomi!

Le feste sono state l’occasione per scambiarci gli auguri (a proposito, Buon Anno a tutti i lettori!) e anche per... raccogliere “il grido di dolore che da tante parti si leva verso di noi”. Scherzo! Il mondo è andato avanti senza grossi problemi fino al 30 gennaio 2009 (data di nascita di Senza peli sulla lingua); certamente può continuare ad andare avanti senza questo blog. A qualcuno però è dispiaciuto che il “Querciolino errante”, una volta cessato di vagabondare per il mondo, abbia anche perso la favella (è ovvio che, accanto ai dispiaciuti, ci sarà stato anche qualcuno a cui il silenzio di Querculanus non è dispiaciuto affatto, e molti altri — probabilmente la stragrande maggioranza — rimasti semplicemente indifferenti).

Effettivamente c’è da dire che in tutte le cose si può trovare un compromesso: passare da una frequenza pressoché quotidiana di post al silenzio totale forse non è giusto; ci può essere una via di mezzo. Si può aggiornare il blog saltuariamente, senza alcuna regolarità, oppure con una frequenza piú diradata (p. es., settimanalmente). Ecco, vorrei riprendere a scrivere qualcosa, per il momento non so con quale tempistica (staremo a vedere).

In questo mese di silenzio (il mio ultimo post risale alla fine di novembre) di cose ne sono successe. Non voglio certo passare in rassegna tutti gli eventi dell’ultimo scorcio del 2009. Ma non posso fare a meno di dire due parole su quanto è avvenuto in seguito alla dichiarazione dell’eroicità delle virtú di Pio XII (20 dicembre 2009). Dico subito che ho accolto con immenso piacere la contemporanea proclamazione di Pio XII e Giovanni Paolo II come “venerabili”: mi è sembrata una mossa geniale (e inattesa) da parte di Benedetto XVI. Ciò che mi ha dato noia non sono state tanto le reazioni del mondo ebraico — scontate! — quanto la nota del Padre Lombardi, che con le sue contorsioni logiche è riuscita a svigorire in un solo colpo una decisione limpida e coraggiosa.

Non che quanto affermato dal portavoce vaticano sia una novità assoluta: lo stesso ragionamento fu utilizzato in riferimento a Pio X, per il suo atteggiamento giudicato troppo rigido nei confronti di veri o presunti modernisti; e, come ricorda lo stesso Padre Lombardi, fu ripreso da Giovanni Paolo II in riferimento a Pio IX. Il ragionamento ha un certo fondamento (non c’è dubbio che i santi possono aver commesso degli errori durante la loro vita, senza che ciò infici in alcun modo la loro santità), anche se bisogna stare attenti a non portare alle estreme conseguenze la contrapposizione tra la “testimonianza di vita cristiana data dalla persona” e la “portata storica delle sue scelte operative”; perché altrimenti non si capisce in che cosa consisterebbe una testimonianza di vita cristiana che non si esprima in concrete scelte operative.

Ma il punto è un altro. Quel che non torna è perché tale distinzione la si applichi solo in alcuni casi: guarda caso, solo con i Papi di nome Pio (IX, X e XII). Come giustamente qualcuno ha fatto notare, le parole pronunciate da Giovanni Paolo II in occasione della beatificazione di Pio IX («La santità vive nella storia e ogni santo non è sottratto ai limiti e condizionamenti propri della nostra umanità. Beatificando un suo figlio, la Chiesa non celebra particolari opzioni storiche da lui compiute, ma piuttosto lo addita all’imitazione e alla venerazione per le sue virtú a lode della grazia divina che in esse risplende») non potrebbero applicarsi anche a chi le ha pronunciate? O, nel caso di Papa Wojtyla, ci troviamo di fronte a una santità “senza se e senza ma”, nei confronti della quale non c’è bisogno di alcuna ricerca storica (tanto è vero che si è derogato anche alle norme procedurali da lui stesso emanate)? Significa che d’ora in poi avremo due categorie di santità: una da accettare in blocco (“prendere o lasciare”), senza possibilità alcuna di critica; e l’altra, dove invece sarà possibile procedere a una serie di distinguo (prendiamo le virtú cristiane e rifiutiamo le scelte operative)? Voi capite che, una volta intrapresa questa strada, non si sa dove si va a finire (sarà un caso che la nota di Padre Lombardi non compare nel Bollettino della Sala Stampa?).

Quanto poi alla ricerca storica, mi sembra ovvio che essa debba godere sempre della massima libertà. Non credo che la Chiesa abbia nulla da temere al riguardo. I processi di canonizzazione sono sempre stati un esempio di estremo rigore storico (ed è per questo che dovremmo andarci piano a derogare alle procedure previste, men che meno per assecondare la piazza, facilmente manipolabile). Ma c’è proprio un settore, oggi, dove le leggi di non pochi stati limitano tale libertà di ricerca. Sapete a che cosa mi riferisco. Non mi sembra molto coerente usare, riguardo al medesimo periodo storico, due pesi e due misure.