sabato 6 febbraio 2010

Ermeneutica della discontinuità

Ieri l’ASCA ha riferito le parole pronunciate da Mons. Fellay alla vestizione di alcuni seminaristi, il 2 febbraio scorso, a proposito dei colloqui in corso tra la Fraternità e la Santa Sede. La notizia è stata riportata anche da Raffaella, che giustamente ha lamentato una mancanza di gratitudine verso il Santo Padre.

Da parte mia, mi sarei aspettato maggiore discrezione. Si dirà che non si trattava di una dichiarazione, ma semplicemente di un’omelia, nella quale non si è rivelato nessun segreto, ma si è fatta solo una riflessione di tipo spirituale. È vero. Oltre tutto, il nocciolo della riflessione è pienamente condivisibile: nella Chiesa esistono due piani distinti, quello umano e quello soprannaturale. È vero che è Dio che guida la Chiesa e che «le cose sono nelle mani di Dio, che ha i mezzi per rimettere la Chiesa in carreggiata».

Non mi sembra però giusto disprezzare piú del necessario la dimensione umana della Chiesa e quindi, nella fattispecie, l’utilità dei colloqui in corso. Mi sembra un tantino eccessivo arrivare a dire: «Umanamente, non arriveremo mai ad un accordo; sí, umanamente non arriveremo ad un accordo, per come vediamo adesso le cose, umanamente non serve a niente». Se i colloqui non servono a niente, perché farli? Tanto valeva, dal punto di vista dei lefebvriani, attendere che Roma si convertisse. Non dimentichiamo mai che, nel mistero dell’incarnazione l’umanità viene assunta dal Verbo e diventa strumento della divinità. Ciò vale anche nel mistero della Chiesa.

Ma quel che mi ha lasciato piú amareggiato è quanto Mons. Fellay dice a proposito della Messa: «Ci si chiede a volte quali sono i punti comuni [tra la Messa riformata e quella tradizionale, ndr], talmente è differente ... Quando sentiamo oggi, anche da Roma, che niente è cambiato, che è la stessa cosa, si rimane un po’ interdetti. Quando si dice che non c’è differenza tra le due messe, vorrei che aprissero gli occhi, non è difficile».

Mi dispiace, ma, insistendo su tale posizione, i lefebvriani rendono davvero impossibile qualsiasi accordo. Ma, a questo punto, la responsabilità della mancata intesa ricade tutta su di loro; non possono continuare a incolpare Roma.

Il problema non riguarda solo la Messa, ma, piú in generale, l’interpretazione del Vaticano II. Ho l’impressione che i lefebvriani non abbiano capito che l’unica possibilità di incontro sta nell’“ermeneutica della continuità”, enunciata dal Santo Padre nel suo discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005. E non si rendono conto che, di fatto, essi si trovano sulle stesse posizioni dei progressisti, che sostengono l’“ermeneutica della discontinuità e della rottura”. È proprio vero che gli estremi si toccano: pensano di essere su posizioni opposte, mentre in realtà condividono la stessa visione.

Continuare a ripetere che il Novus Ordo costituisce un’altra Messa significa anche essere convinti che il Concilio Vaticano II segni davvero una “svolta” nella storia della Chiesa. Ma, se si sostiene tale tesi, non ci si può piú considerare, ahimè, custodi della tradizione; ci si arruola, per quanto inconsapevolmente, nelle schiere degli “eversori”.