domenica 27 ottobre 2013

«Maledetto l’uomo che confida nell’uomo»

Il vangelo di oggi ci presenta la parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18:9-14). Essa è preceduta da un’introduzione (v. 9), con cui l’evangelista spiega il motivo per cui Gesú l’ha pronunciata:

Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri.

La vecchia traduzione della CEI suonava:

Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri.

Il testo originale greco ha:

Εἶπεν δὲ καὶ πρός τινας τοὺς πεποιθότας ἐφ’ ἑαυτοῖς ὅτι εἰσὶν δίκαιοι καὶ ἐξουθενοῦντας τοὺς λοιποὺς τὴν παραβολὴν ταύτην.

La traduzione latina della Vulgata (antica e nuova) rende l’originale nel modo seguente:

Dixit autem et ad quosdam, qui in se confidébant tamquam justi et aspernabántur céteros, parábolam istam.

Anche chi non conosce il greco, semplicemente confrontando la traduzione latina con le due traduzioni italiane, si accorge della differenza: nella Vulgata (che riflette letteralmente il testo originale greco) si parla di «alcuni che confidavano in sé stessi come [se fossero] giusti» (alla Vulgata semmai si potrebbe rinfacciare una certa libertà nel tradurre ὅτι εἰσὶν δίκαιοι con tamquam justi, essendo la traduzione letterale «poiché sono [= erano] giusti»); nelle due traduzioni italiane si dice invece: «alcuni che presumevano di essere giusti» (1974); «alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti» (2008). È cambiata la forma, ma è rimasto immutato il significato. Ebbene, ho l’impressione che con tale traduzione, assai libera e apparentemente suggestiva, in realtà si tradisca il significato originario del testo e si privi la parabola che segue della sua chiave interpretativa.

Tutto sta a interpretare correttamente l’espressione τοὺς πεποιθότας ἐφ’ ἑαυτοῖς. πεποιθότας è il participio perfetto di πειί  ίθω, verbo che significa appunto “persuadere, convicere”; ma, al perfetto (πέποιθα), assume valore intransitivo (“fidarsi, confidare, aver fiducia”). Si veda in proposito un qualsiasi dizionario di greco (p. es., il Rocci, p. 1451). Naturalmente i traduttori della CEI la loro interpretazione non se la sono inventata: il dizionario del Padre Zorell (Lexicon Græcum Novi Testamenti, col. 1023), dopo aver correttamente ricordato che il perfetto πέποιθα ha significato di presente (“fido, confido”), sostiene sorprendentemente che, seguíto da ὅτι (come nel nostro caso), πέποιθα significherebbe “avere la persuasione di…”, giustificando cosí la traduzione della Bibbia CEI. Si potrebbe far notare che quell’ὅτι potrebbe avere valore causale piú che dichiarativo:

È meglio tradurre hoti con “perché” invece che con il semplice “che”. I farisei erano completamente “giusti” di fronte alla legge; è per questo che essi avevano tanta fiducia in se stessi [2 Cor 1:9] (C. Stuhlmueller, “Il Vangelo secondo Luca”: Grande Commentario Biblico, Queriniana, Brescia, 1973, p. 1018).

Il testo citato da Stuhlmueller (2 Cor 1:9) è pressoché identico a quello evangelico: ἵνα μὴ πεποιθότες ὦμεν ἐφ' ἑαυτοῖς ἀλλ' ἐπὶ τῷ θεῷ τῷ ἐγείροντι τοὺς νεκρούς, questa volta tradotto correttamente dalla CEI: «perché non ponessimo fiducia in noi stessi, ma nel Dio che risuscita i morti». A volere, si potrebbe far riferimento anche a un celebre testo del Vecchio Testamento: «Benedetto l’uomo che confida nel Signore» (Ger 17:7), che nel greco della Septuaginta suona: εὐλογημένος ὁ ἄνθρωπος, ὃς πέποιθεν ἐπὶ τῷ Κυρίῳ (si noti la medesima costruzione che troviamo nel vangelo e in San Paolo: πέποιθα + ἐπὶ + dativo).

Dopo questa lunga (e forse arida e noiosa) analisi filologica, vi chiederete perché abbia sostenuto all’inizio che le due traduzioni della CEI avrebbero privato la parabola della sua chiave interpretativa. Semplicemente perché la colpa del fariseo sta proprio nel confidare in sé stesso, non nell’avere “l’intima presunzione di essere giusto” (sottinteso, senza esserlo). In realtà, il fariseo era “giusto”, ma la sua giustizia era quella derivante dalla legge e non quella proveniente da Dio (Fil 3:9) che invece “giustifica” il pubblicano (tra parentesi, si vedano, nel capitolo terzo della lettera ai Filippesi, i vv. 3-4, dove viene usato lo stesso verbo πέποιθα per parlare della “fiducia nella carne”).

Come spesso capita, la liturgia coglie nella parola di Dio aspetti che agli esegeti, con tutta la loro acribía, sfuggono. L’antifona al Benedictus delle Lodi mattutine di questa XXX domenica durante l’anno, collegando sapientemente la conclusione della parabola (v. 14) con la sua introduzione (v. 9), canta:


Descéndit publicánus justificátus in domum suam, ab illo, qui in se confidébat.

domenica 5 maggio 2013

Promemoria


Su questo blog mi sono occupato piú volte dell’attesa nuova edizione italiana del Messale Romano (si vedano in particolare i post del 15 ottobre 2010 e del 13 novembre 2010). Nel 2010 sembrava che la pubblicazione del nuovo Messale fosse imminente; e invece siamo nel 2013 e ancora non si è visto nulla. Pare che il ritardo sia dovuto a divergenze fra la CEI e la Congregazione per il Culto divino: questa, nel 2001 (istruzione Liturgiam authenticam), aveva emanato indicazioni precise circa i nuovi criteri di traduzione; nel caso dell’espressione “pro multis” era prima intervenuto, nel 2006, il Card. Arinze, allora Prefetto della Congregazione per il Culto divino, poi, nel 2012, lo stesso Papa Benedetto; ebbene, pare che la Conferenza episcopale italiana non abbia tenuto conto di tali autorevoli interventi, per cui è evidente che l’approvazione della nuova traduzione sia stata bloccata.

Ma, ora che il Papa è cambiato, che cosa succederà? Finora Papa Francesco nelle questioni dottrinali, ma anche in quelle disciplinari, non si è discostato molto dalle decisioni del suo predecessore. In campo liturgico però non abbiamo ancora avuto occasione di verificare la posizione del nuovo Pontefice: abbiamo, sí, assistito a una certa semplificazione delle celebrazioni da lui presiedute, ma sul piano della disciplina liturgica non c’è stato ancora alcun intervento. Per esempio, a proposito della traduzione del “pro multis” quale sarà l’atteggiamento di Papa Bergoglio? Confermerà la posizione “rigorista” assunta negli ultimi anni dalla Santa Sede o lascerà che quell’espressione continui a essere tradotta liberamente con “per tutti”? Staremo a vedere. Per il momento, si ha l’impressione che il nuovo Pontefice non sia particolarmente interessato alle questioni liturgiche. Padre Lombardi ci ha ricordato, se mai ce ne fosse stato bisogno, che un gesuita “nec rubricat, nec cantat”. Sí, è vero; ma, divenuto Papa, il gesuita Bergoglio non potrà continuare a ignorare la liturgia; prima o poi sarà costretto a prendere posizione in materia.

Nel frattempo vorrei approfittare di questo indugio, per raccogliere alcune proposte da me fatte qua e là (o riprese da altri) a proposito della revisione del Messale italiano. Vorrebbe essere un piccolo promemoria per i curatori del nuovo Messale, senza alcuna pretesa di completezza o sistematicità. Si tratta solo di idee che butto là, se mai possano essere di qualche utilità.

1. Non sarebbe possibile fare un’edizione bilingue, con testo originale latino e traduzione italiana a fianco? Non mi si dica che non c’è spazio: si vada a vedere quanto spazio vuoto rimane nell’attuale edizione. Se quello spazio fosse occupato da una colonnina col testo latino (in carattere ridotto), si avrebbero due vantaggi: si permetterebbe la celebrazione, almeno saltuaria, in lingua latina; si darebbe la possibilità al sacerdote di confrontare la traduzione italiana col testo originale (cosa che può risultare utile per la comprensione personale e la spiegazione ai fedeli).

2. Visto che i nuovi criteri della Congregazione per il Culto divino richiedono la massima fedeltà all’originale latino, suppongo che si dovranno togliere tutti i testi che erano stati introdotti nell’edizione del 1983. Tra questi però ci sono anche dei testi di un certo valore, come, per esempio, le collette alternative domenicali, che riprendono i contenuti della liturgia della parola. Ebbene, la mia proposta è quella di pubblicare a parte una nuova edizione dell’Orazionale, che preveda formulari della preghiera universale (con intenzioni brevi, semplici e incisive) per ogni domenica dell’anno liturgico (in modo da eliminare le intenzioni spesso discutibili proposte dai vari foglietti); al termine di tali formulari potrebbero essere recuperate quelle collette alternative, che diventerebbero cosí, come accade nel rito ambrosiano, orazioni conclusive della liturgia della parola (era la proposta che aveva fatto già tanti anni fa il compianto Padre Secondo Mazzarello).

3. La traduzione dei testi, naturalmente, dovrebbe essere piú letterale, senza nulla togliere alla comprensione, alla fluidità e all’eleganza. A parte il caso del “pro multis”, su cui si sono versati fiumi d’inchiostro e io stesso mi sono brevemente soffermato (18 ottobre 2010  e 4 maggio 2011), c’è il caso del “Domine, non sum dignus” (anche qui si veda il post del 13 novembre 2010, dove proponevo: «O Signore, non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, ma di’ soltanto una parola e l’anima mia sarà guarita»). Vorrei qui aggiungere, a titolo puramente esemplificativo, un altro caso di traduzione eccessivamente libera che, a mio parere, andrebbe corretta. Si tratta del primo prefazio comune:

«In quo omnia instaurare [Ef 1:10] tibi complacuit, et de plenitudine eius nos omnes accipere [Gv 1:16] tribuisti. Cum enim in forma Dei esset, exinanivit semetipsum [Fil 2:6-7], ac per sanguinem crucis suæ pacificavit universa [Col 1:20]; unde exaltatus est super omnia [Gv 12:32] et omnibus obtemperantibus sibi factus est causa salutis æternæ [Eb 5:9]».

Che in italiano è diventato:

«In lui hai voluto rinnovare l’universo, perché noi tutti fossimo partecipi della sua pienezza. Egli che era Dio annientò se stesso, e col sangue versato sulla croce pacificò il cielo e la terra. Perciò fu innalzato sopra ogni creatura ed è causa di salvezza eterna per coloro che ascoltano la sua parola».

E che, con qualche piccolo ritocco, potrebbe diventare:

«In lui hai voluto restaurare l’universo, e hai concesso a tutti noi di ricevere dalla sua pienezza. Egli, che era Dio, svuotò se stesso, e col sangue della sua croce pacificò tutte le cose. Perciò fu innalzato sopra ogni creatura e divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono».

4. Spero che nella nuova edizione venga eliminata la traduzione italiana del Kyrie, eleison e sia lasciato unicamente il testo originale greco. Il Kyrie, che è sopravvissuto a secoli di Messa in latino, deve scomparire proprio ora con la traduzione della liturgia nelle lingue volgari? Gli ambrosiani, anche nel loro Messale in italiano, hanno conservato i tre Kyrie, eleison cosí com’erano. Dal Messale ambrosiano poi si potrebbe riprendere anche il modo di tradurre i tropi del Kyrie. La formula latina è:

«Qui missus es sanare contritos corde: Kyrie, eleisonR. Kyrie, eleison.
Qui peccatores vocare venisti: Christe, eleison. R. Christe, eleison.
Qui ad dexteram Patris sedes, ad interpellandum pro nobis: Kyrie, eleison. R. Kyrie, eleison».

Il Messale italiano, con una certa libertà, ha tradotto:

«Signore, mandato dal Padre a salvare i contriti di cuore, abbi pietà di noi. R. Signore, pietà.
Cristo, che sei venuto a chiamare i peccatori, abbi pietà di noi. R. Cristo, pietà.
Signore, che intercedi per noi presso il Padre, abbi pietà di noi. R. Signore, pietà».

Il Messale ambrosiano, invece, è rimasto piú fedele al testo originale:

«Tu che sei inviato dal Padre per salvare i contriti di cuore, Kyrie, eleison. R. Kyrie, eleison.
Tu che sei venuto a chiamare i peccatori, Kyrie, eleison. R. Kyrie, eleison.
Tu che intercedi per noi presso il Padre, Kyrie, eleison. R. Kyrie, eleison».

È chiaro che, nel rito romano, il secondo Kyrie, eleison dovrebbe essere sostituito da Christe, eleison.

5. Non sarebbe possibile eliminare l’articolo prima di “Cristo”? Se si dice “il Cristo”, si usa questo termine come un nome comune (= il Messia); ma, quando noi diciamo “Cristo”, il piú delle volte usiamo tale termine come sinonimo di Gesú, quindi come nome proprio; per cui mi sembra piú corretto dire semplicemente “Cristo”, senza l’articolo.

6. Avevo dedicato uno dei primi post di questo blog all’espressione, ricorrente nella traduzione italiana del Messale, “memoriale del sacrificio di Cristo” (si veda l’orazione sulle offerte del giovedí santo e della Messa votiva dell’Eucaristia, come pure il titolo del primo prefazio della santissima Eucaristia). Tale espressione mi pare piuttosto pericolosa, perché potrebbe portare a un’attenuazione del valore sacrificale della Messa. La Messa è “sacrificio di Cristo” e “memoriale della sua morte e risurrezione”,  ma non “memoriale del sacrificio di Cristo”. Al massimo, si potrebbe dire, come fa l’editio typica del Catechismo della Chiesa Cattolica, “memoriale sacrificale” (n. 1362).

domenica 21 aprile 2013

A proposito di riforme


Una settimana fa, il 13 aprile, la Segreteria di Stato ha diffuso un comunicato con cui si informava che «il Santo Padre Francesco, riprendendo un suggerimento emerso nel corso delle Congregazioni Generali precedenti il Conclave, ha costituito un gruppo di Cardinali per consigliarLo nel governo della Chiesa universale e per studiare un progetto di revisione della Costituzione Apostolica Pastor bonus sulla Curia Romana». Il comunicato rendeva quindi noti i nomi degli otto Cardinali membri di tale gruppo, il nome del Vescovo che svolgerà le funzioni di Segretario e la data della prima riunione collettiva.

I mezzi di comunicazione hanno dato notevole rilievo alla notizia: alcuni l’hanno voluta accostare alla recente nomina di una commissione di “saggi” da parte del Presidente Napolitano; altri hanno parlato di prima realizzazione della tanto auspicata “collegialità” all’interno della Chiesa cattolica. Effettivamente il comunicato della Segreteria di Stato dà adito sia all’una che all’altra interpretazione, dal momento che in esso si indicano due diverse finalità del gruppo: da una parte si dice che esso dovrà consigliare il Papa nel governo della Chiesa universale, dall’altra si afferma che esso dovrà studiare un progetto di revisione della Curia Romana.

Personalmente, ritengo che si tratti di due questioni piuttosto diverse tra loro e che, probabilmente, sarebbe stato meglio mantenere distinte. Un conto è riformare la Curia Romana, per la qual cosa può essere utile la costituzione di una commissione temporanea, che svolga il suo lavoro, sottoponga i risultati al Santo Padre e poi si sciolga, come è avvenuto in tante altre occasioni. A tale scopo, mi sembra che potrebbero andare benissimo gli otto Cardinali che sono stati nominati. L’unica perplessità potrebbe venire dal fatto che, fra loro, uno solo provenga della Curia: gli altri che ne sanno? Però si potrebbe obiettare che, in questo momento, proprio di questo c’è bisogno: di un intervento esterno che modifichi radicalmente i meccanismi che hanno regolato finora il funzionamento della Curia. Ma su questo punto non vorrei dilungarmi ulteriormente, sia perché io stesso non conosco certi meccanismi, sia perché, onestamente, la cosa non mi interessa piú di tanto.

Mentre sono piú interessato all’altro aspetto, quello del governo della Chiesa universale. Il comunicato della Segreteria di Stato afferma che il gruppo degli otto Cardinali dovrà consigliare il Papa nel governo della Chiesa universale. Che significa esattamente? Se si trattasse, anche in questo caso, di studiare il modo di rendere piú collegiale il governo della Chiesa, non ci sarebbe problema. Ma non sembra che sia questo il caso: nel comunicato non si parla di studio, come nel caso della riforma della Curia Romana; si parla espressamente di consulenza nel governo. Quindi è stato costituito un nuovo organismo istituzionale, una specie di “Consiglio della Corona”? Se devo essere sincero, tale decisione suscita in me qualche perplessità. Non perché io sia contrario a priori a una simile eventualità (mi rendo conto che diventa sempre piú urgente adottare uno stile collegiale di governo, che a mio parere non metterebbe in alcun modo in discussione l’autorità pontificia), ma per le modalità con cui la decisione è stata annunciata e, a quanto pare, già realizzata. Personalmente, ritengo che si tratti di una questione estremamente seria e delicata, che meriterebbe un supplemento di riflessione e la cui soluzione non può essere in alcun modo frutto di improvvisazione. Ci sono molti aspetti che vanno considerati prima di procedere alla costituzione di un nuovo organismo. Io stesso faccio fatica in questo momento a metterli tutti a fuoco, ma cercherò di elencarne almeno alcuni.

Innanzi tutto, a mio modesto parere, va chiarito che cosa si intende con “governo della Chiesa universale”. Nessuno vuole mettere in discussione il primato universale del Papa; ma, come giustamente si sta insistendo sul fatto che il Papa è, in primo luogo, Vescovo di Roma, cosí penso sarebbe opportuno ricordare che nella Chiesa cattolica, accanto alla Chiesa latina, esistono numerose Chiese sui juris. Se è vero che il Romano Pontefice possiede la «potestà ordinaria su tutte le Chiese particolari e i loro raggruppamenti» (can. 333, § 1), è altrettanto vero che le modalità con cui governa la Chiesa latina (di cui è il Patriarca) sono diverse da quelle con cui esercita la potestà sulle Chiese orientali, che godono di ampia autonomia di governo. Si tratta di una realtà che non può in alcun modo essere ignorata, soprattutto in una prospettiva ecumenica. Qualcuno, giustamente, nei giorni scorsi ha parlato di ritorno alla “Pentarchia”. Perché allora non pensare alla costituzione di un “Consiglio dei Patriarchi”, che coadiuvi il Papa nel disbrigo delle questioni che riguardano tutta la Chiesa, e non soltanto la Chiesa latina?

Mi sembra assai importante la riscoperta della Chiesa latina come “Chiesa patriarcale” accanto alle Chiese patriarcali orientali, perché ciò spiegherebbe anche la pretesa della Sede Romana di intervenire in questioni che potrebbero a prima vista apparire come di competenza delle Chiese particolari (p. es., la nomina dei Vescovi). È per questo motivo che qualche anno fa accolsi con un certo scetticismo la rinuncia, da parte di Benedetto XVI, al titolo di “Patriarca dell’Occidente”). Anzi, proprio la rivalutazione dell’indole patriarcale della Chiesa latina giustificherebbe l’attribuzione di un carattere permanente al Sinodo dei Vescovi, trasformandolo in un vero e proprio “Sinodo patriarcale”. Ovviamente si dovrebbe modificare radicalmente la sua attuale fisionomia: avevo già avanzato la proposta della costituzione di un “Sinodo dei Metropoliti”, che sarebbe certamente molto rappresentativo, ma avrebbe l’inconveniente di essere troppo numeroso (oltre cinquecento Arcivescovi); se si volesse un Sinodo piú snello e, contemporaneamente, si volesse valorizzare il ruolo delle Chiese nazionali, si potrebbe pensare a un “Sinodo dei Primati”, il che ridarebbe vitalità a un’istituzione, quella primaziale, che purtroppo è praticamente scomparsa con la costituzione delle Conferenze episcopali, mentre continua a svolgere un ruolo di primaria importanza in alcune comunità non-cattoliche, come la Comunione Anglicana. Naturalmente tale “Sinodo patriarcale” — dei Metropoliti o dei Primati che sia — dovrebbe avere delle competenze specificamente indicate dal diritto e dovrebbe riunirsi periodicamente (secondo me, almeno una volta all’anno e senza tutte le lungaggini dell’attuale Sinodo dei Vescovi).

Nel mio post del 24 novembre 2010 parlavo anche di una rivalutazione del Concistoro, che già ora costituisce un organismo di aiuto “collegiale” dei Cardinali al Romano Pontefice (can. 353). Una volta stabilito un “Sinodo patriarcale”, il Concistoro non finirebbe per costituire una sorta di inutile doppione? Non credo: il Concistoro dovrebbe essere un organo di consultazione piú frequente e immediata rispetto al Sinodo; esso potrebbe essere convocato tutte le volte che se ne presentasse il bisogno. Se poi si volesse fare un paragone con la società civile, si potrebbe dire approssimativamente che il Sinodo sta alla “Camera” come il Concistoro al “Senato”.

Recentemente George Weigel ha evidenziato alcuni limiti dell’attuale composizione del Collegio cardinalizio e ha avanzato alcune proposte di riforma in proposito. Anch’io ritengo che il Collegio dei Cardinali necessiti di una profonda revisione, ma personalmente seguirei una strada diversa da quella indicata da Weigel. Secondo me, l’istituto cardinalizio si è evoluto attraverso i secoli, perdendo quasi completamente la sua fisionomia originaria: agli inizi esso si identificava praticamente con il clero dell’Urbe; oggi è diventato una specie di élite dell’episcopato mondiale. Probabilmente bisognerebbe recuperare, per quanto possibile, la sua fisionomia originaria, adattandola ovviamente alle mutate condizioni dei tempi. Innanzi tutto, andrebbero, a mio parere, abolite tutte le sedi cardinalizie: l’unica distinzione tra i Vescovi dovrebbe essere quella tra Vescovi e Arcivescovi-Metropoliti (attualmente sembra che, fra gli Arcivescovi, ce ne siano alcuni piú Arcivescovi degli altri, perché insigniti della porpora). I Cardinali non dovrebbero piú essere sparpagliati nel mondo, ma tornare a risiedere tutti a Roma o nelle vicinanze (i Vescovi suburbicari). A Roma essi dovrebbero essere realmente i collaboratori del Papa nel governo della Chiesa, con una rappresentatività ovviamente internazionale. Se si volesse ulteriormente insistere sull’internazionalità del Collegio cardinalizio, oltre ai responsabili dei dicasteri della Curia Romana, si potrebbero nominare Cardinali (Cardinali-preti, senza alcun bisogno dell’ordinazione episcopale, come era alle origini) i Rettori delle “chiese nazionali” presenti a Roma, che diventerebbero in qualche modo i rappresentanti ufficiali della loro Chiesa locale presso la Sede apostolica. In tal modo tutti i Cardinali risiederebbero a Roma, potrebbero facilmente riunirsi in Concistoro e cosí consigliare il Papa tutte le volte che ce ne fosse bisogno.

Per quanto riguarda il governo vero e proprio della Chiesa (a questo punto, della Chiesa latina, se si vuole lasciare la giusta autonomia alle altre Chiese sui juris), si dovrebbe, a mio avviso, istituzionalizzare e rendere piú regolare quanto già avviene in alcune circostanze: la riunione dei capi-dicastero della Curia Romana (i Prefetti delle Congregazioni), che diventerebbe cosí una sorta di “Consiglio dei ministri” del Papa, da riunire almeno una volta alla settimana per affrontare collegialmente tutte le questioni di maggior rilievo. All’interno di tale Consiglio un ruolo speciale, da ridefinire con precisione, dovrebbe essere svolto dal “Primo Ministro”, vale a dire dal Segretario di Stato, che, a mio parere, dovrebbe abbandonare tale titolo (attualmente privo di senso) e riassumere quello tradizionale di “Cancelliere Apostolico”.

A questo punto, con una riorganizzazione radicale del governo centrale della Chiesa (Consiglio dei Patriarchi, Consiglio dei capi-dicastero, Concistoro, Sinodo dei Metropoliti o Primati), che bisogno c’è di un ulteriore “Consiglio della Corona”, composto di alcuni Cardinali, che — con tutto il rispetto per gli interessati — pur provenendo dai diversi continenti, godono di poca o punta rappresentatività?

Le riforme vanno fatte, ma dobbiamo stare attenti a non creare enti inutili (entia non sunt multiplicanda præter necessitatem). Spesso, nell’intento encomiabile di semplificare la burocrazia, rischiamo di complicarla ulteriormente, aggiungendo burocrazia a burocrazia (si pensi a tutti gli “organismi di partecipazione” a livello diocesano e parrocchiale, istituiti dopo il Concilio). Onde evitare tale rischio, ritengo che, tra i criteri generali da seguire in queste riforme, ne vadano considerati innanzi tutto due: la valorizzazione e l’eventuale revisione degli organismi già esistenti e il recupero di istituzioni tradizionali che col tempo sono cadute in disuso. Non dimentichiamo mai che, in una prospettiva ecumenica, il riferimento alla tradizione può rivelarsi piú utile di quanto non sembri.

lunedì 1 aprile 2013

Pontificati virtuali


Nei giorni scorsi mi ha scritto dalla Germania (l’ultimo post è stato ripreso dal Müsteraner Forum für Theologie und Kirche, per cui ha avuto una certa diffusione nei paesi di lingua tedesca) una signora che esprimeva il suo sconcerto per l’atteggiamento assunto dai media nei confronti del neo-eletto Papa Francesco: «Tutti a sperticarsi in elogi al nuovo Vescovo di Roma. Ma  dove erano in questi otto anni? Papa Benedetto è stato crocifisso dal primo all’ultimo giorno, salvo quando ha dato le dimissioni, allora si sono fatti sentire! Il perché di tanto entusiasmo è  dato dal fatto che il nuovo Vescovo indossa la croce di ferro, le scarpe nere, i pantaloni neri?». La signora mi chiedeva di spiegare tale diverso atteggiamento tenuto dai media nei confronti di Papa Benedetto e di Papa Francesco.

Me la sono cavata con una citazione evangelica: «Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti ... Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti» (Lc 6:22-23.26).

A parte il Vangelo, che rimane sempre valido, ho continuato a riflettere sulla domanda della signora: come si spiega che quei media, che per otto anni hanno continuato ad attaccare Ratzinger per qualsiasi motivo, oggi per qualsiasi motivo continuano a elogiare Bergoglio? Che esista una disparità di trattamento, è sotto gli occhi di tutti. Mercoledí scorso Raffaella, riferendosi al fatto che Papa Francesco nell’udienza generale aveva parlato solo in italiano, si era giustamente chiesta: «Che cosa sarebbe accaduto se Papa Benedetto, a partire dal 2005, avesse adottato lo stesso sistema? … Quando Benedetto XVI andò in Polonia (2006) fu aspramente criticato da un vaticanista perché aveva deciso di tenere discorsi ed omelie in italiano. Scrisse: “Ci si aspettava che prendesse lezioni di polacco”. Dopo il primo Messaggio Urbi et Orbi (Natale 2005) ci fu chi ironizzò perché il Santo Padre aveva salutato in sole 33 lingue, circa la metà del suo predecessore. Quando, negli anni successivi, Benedetto arrivò a battere tutti i record precedenti nessuno gli fece i complimenti». Staremo a vedere se domani sui giornali i vaticanisti avranno da ridire sul fatto che ieri Papa Francesco ha fatto gli auguri soltanto in italiano. Ho i miei dubbi; anzi sono sicuro che sarà un’ulteriore occasione per tessere le lodi del nuovo Pontefice, a cui piace la semplicità e il contatto immediato con le folle. Ci sarà anche qualcuno che darà una lettura teologica della novità, sostenendo che Papa Bergoglio si sente soprattutto Vescovo di Roma e pertanto usa la lingua che si parla a Roma (qualcuno dovrà poi spiegarmi perché si debba andare a cercare il Vescovo di Roma alla “fine del mondo”, e scomodare tanti Cardinali provenienti da ogni dove, quando si potrebbe fare tutto in casa, con tanti bravi preti a disposizione nella diocesi di Roma).

Non so se avete notato che, per i media, ogni gesto di Papa Francesco diventa un evento: abbraccia un bambino o un disabile, e sembra che sia la prima volta che questo avviene, quando gli ultimi Pontefici ci avevano abituato a gesti simili, senza che ormai nessuno ci facesse piú caso. Qualsiasi cosa dice, anche la piú banale, diventa un oracolo. L’altro giorno mi è capitato di sentire, non ricordo se alla radio o in TV: «Parole forti quelle di Papa Bergoglio: “Dobbiamo aiutarci gli uni gli altri”!». Non mi si fraintenda: non sto criticando Papa Francesco e non sto paragonando i suoi discorsi con quelli di Papa Benedetto. Ognuno si esprime a suo modo; c’è bisogno della lectio magistralis, e c’è bisogno della semplice riflessione a braccio; ogni tipo di intervento può avere il suo valore, a seconda delle circostanze. Quel che mi dà noia sono le amplificazioni dei media.

Ho l’impressione che si stia creando un pontificato virtuale, in contrapposizione a un pontificato virtuale precedente, di segno opposto. Mi vado chiedendo in questi giorni: ma che fine hanno fatto tutti i gravissimi problemi che affliggevano la Chiesa durante il pontificato di Benedetto XVI, e che qualcuno pensa possano in qualche modo essere all’origine della sua rinuncia? Sono tre settimane che nessuno parla piú di pedofilia nella Chiesa; nessuno parla piú di Vatileaks e dei veleni della Curia Romana; nessuno parla piú dello IOR. Tutto risolto? È bastato eleggere il nuovo Papa per risolvere automaticamente tutti i problemi? Due son le cose: o era tutta una montatura mediatica allora, o è tutta una montatura mediatica adesso. Non è possibile che problemi che stavano facendo vacillare la Chiesa di punto in bianco scompaiano nel nulla. Si noti bene che, a parte le stupidaggini, finora non è stata fatta nessuna riforma; l’unica nomina che è stata fatta è quella del nuovo Arcivescovo di Buenos Aires; eppure tutto fila liscio come l’olio. Sembrerebbe che il problema fosse uno solo: Joseph Ratzinger.

Sinceramente faccio fatica a comprendere il motivo di tanta avversione. Certamente anche lui ha commesso degli errori (c’è qualcuno che ne è esente?). Personalmente ritengo che il suo maggior limite sia stata l’incapacità di scegliersi i collaboratori (basta vedere come il precedente conclave, formato da Cardinali nominati da Giovanni Paolo II, abbia preferito lui a Bergoglio; mentre questo conclave, composto in gran parte da Cardinali da lui creati, abbia eletto quello che era stato il suo “rivale”): Papa Ratzinger, che pure conosceva i meccanismi di Curia, si era circondato di carrieristi che, al momento opportuno, gli han voltato le spalle. Un’altra critica che gli si può muovere è che non è stato capace di realizzare le riforme che si era proposte: innanzi tutto la riforma della Curia Romana; poi la “riforma della riforma” in campo liturgico; infine la riconciliazione con i lefebvriani. Ma, d’altra parte, come avrebbe potuto realizzare tali riforme senza l’aiuto dei suoi collaboratori?

In ogni caso, queste o altre possibili critiche non giustificano l’avversione dei media nei confronti di Ratzinger. Ci deve essere qualche altro motivo che ci sfugge. Qualcuno ha avanzato l’ipotesi che il suo “peccato originale” fossero le origini tedesche. Non saprei: la Germania è stato forse il Paese dove lo si è maggiormente osteggiato. Forse la sua colpa principale è stata l’essere tradizionalista? Qualche anno fa avevo scritto un post dove sostenevo che Ratzinger fosse sempre rimasto fondamentalmente un “liberale”. Sinceramente si fa fatica a individuare il motivo reale per cui per otto anni (senza contare gli anni precedenti) i media si sono esercitati nel tiro al piattello contro Papa Benedetto.

Comunque, sono convinto che l’atteggiamento che i media hanno tenuto nei confronti di Ratzinger, da un momento all’altro potrebbero assumerlo anche nei confronti di Bergoglio. Fossi nei panni di Papa Francesco, non dormirei sonni tranquilli: mai fidarsi degli adulatori; di punto in bianco potrebbero rivoltarsi contro. Non so se vi siete accorti, ma sono già stati lanciati alcuni “avvertimenti” mafiosi: prima le accuse di aver sostenuto la dittatura militare, ora quelle di aver aderito alla “Guadia di Ferro” (senza parlare del film, del 2012, ma arrivato solo ora in Italia, Mea maxima culpa). Che poi Introvigne o chi per lui dimostri l’inconsistenza di tali accuse, non serve a niente: nel momento in cui il New York Times decide di sferrare l’attacco, non c’è santo che tenga; può essere anche tutto falso, ma il semplice fatto che le stesse accuse rimbalzino da un giornale all’altro, le trasforma in “verità”. A quel punto anche la testimonianza dei Premi Nobel diventa superflua; ciò che conta è quanto dicono i media: una verità virtuale, come virtuale è il mondo in cui viviamo.

domenica 31 marzo 2013

Buona Pasqua!



«Quid quæritis viventem cum mortuis?» 
(Lc 24:5)

domenica 24 marzo 2013

Relativismo nella Chiesa?


Fino a qualche anno fa mi sono occupato, in forma piú o meno diretta, di formazione all’interno del mio Ordine religioso. Quel che lamentavo sovente era la “molteplicità delle formazioni”: praticamente tanti erano i modi di formare, quanti erano i formatori. Nonostante ci fossero le Costituzioni, la Ratio institutionis, le delibere dei Capitoli generali, le tradizioni domestiche, di fatto ciascun novizio o studente veniva formato a seconda dei gusti personali del Padre Maestro che si ritrovava ad avere. Con quali conseguenze sull’unità della Congregazione, vi lascio immaginare. In tutte le riunioni dei formatori e nei Capitoli ho sempre insistito sulla necessità dell’unità della formazione e, devo riconoscere, delle delibere in tal senso sono state anche approvate; ma ho l’impressione che, nonostante le delibere, la situazione sia rimasta pressoché immutata.

Beh, quel che lamentavo riguardo alla formazione nel mio Ordine, in realtà costituisce un problema generale, che tocca ogni ambito, diffuso in tutta la Chiesa, soprattutto dopo il Vaticano II, col quale ciascuno si è sentito autorizzato a fare di testa propria. Non mi si fraintenda, non sto criticando il Concilio: accetto con convinzione tutte le riforme da esso promosse e successivamente realizzate; sono riforme che si rendevano necessarie per il mutamento dei tempi. Negli anni dopo il Concilio i Papi e i Dicasteri della Curia Romana hanno fatto un enorme sforzo di aggiornamento in tutti i settori, lasciando talora spazio anche alla possibilità di ulteriori adattamenti alle situazioni locali, ma sempre entro i limiti previsti dalle nuove normative. Il problema è che spesso tali normative sono state completamente ignorate dalla “base”, la quale anzi riteneva che, col Concilio, si era fatta piazza pulita di ogni legalismo e che unico criterio di azione fosse ormai l’attenzione al soffio dello Spirito, solitamente coincidente — guarda caso — con i propri gusti personali.

Perché, direte voi, questa lunga introduzione? Dove vuole arrivare Padre Scalese? È la riflessione che mi è venuta in mente quando, l’altro giorno, ho letto una notizia che mi ha lasciato alquanto perplesso: il Papa, il giovedí santo, celebrerà la Messa in Cena Domini nel carcere minorile di Casal del Marmo. Beh, dove sta il problema? Non è un bellissimo gesto quello deciso da Papa Bergoglio? “Visitare i carcerati” non è forse una delle opere di misericordia corporale? Il Papa non può decidere liberamente dove celebrare la Messa del giovedí santo?

Vorrei cominciare col rispondere a quest’ultima domanda, perché credo che da una corretta risposta ad essa dipenda tutto il resto. È vero che il Papa può decidere quel che vuole: egli è il legislatore supremo. Ma può decidere, appunto, legiferando. Se esiste una legge che a lui non piace, può cambiarla; ma, se una legge esistente, fatta da lui o da uno dei suoi predecessori, lui non la cambia, non mi sembra opportuno che la disattenda. Non sono un canonista, ma non mi pare che al Papa possa applicarsi il principio “Princeps legibus solutus”: non sarebbe molto corretto nei confronti di quanti quelle leggi sono tenuti a osservarle. Questo, come principio generale.

Nel caso presente, non si tratta propriamente di leggi, ma di indicazioni pastorali, che comunque hanno, a mio parere, un valore piuttosto vincolante. Una trentina d’anni fa fu pubblicato il Cæremoniale Episcoporum, che non credo fosse destinato soltanto ai cerimonieri delle cattedrali, ma innanzi tutto ai Vescovi stessi. Faccio notare che non mi riferisco al Cerimoniale del 1600, ma a quello del 1984, “ex decreto Sacrosancti Œcumenici Concilii Vaticani II instauratum, auctoritate Ioannis Pauli PP. II promulgatum”. Ebbene, che cosa si dice nel suddetto Cerimoniale a proposito dei riti del Triduo pasquale?

«Tenendo quindi presenti la particolare dignità di questi giorni e la grande importanza spirituale e pastorale di queste celebrazioni nella vita della Chiesa, è sommamente conveniente che il Vescovo presieda nella sua chiesa cattedrale la Messa nella Cena del Signore, l’azione liturgica del venerdí santo “nella passione del Signore”, e la veglia pasquale, soprattutto se in essa si devono celebrare i sacramenti della iniziazione cristiana» (n. 296).

E, specificamente a proposito del giovedí santo, il Cerimoniale prosegue:

«Il Vescovo, anche se ha già celebrato al mattino la Messa del crisma, abbia ugualmente a cuore di celebrare anche la Messa della Cena del Signore con la piena partecipazione di presbiteri, diaconi, ministri e fedeli intorno a sé» (n. 298).

Non si tratta di norme tassative, ma di indicazioni in ogni caso pressanti, dalle quali, a mio parere, solo per gravissime ragioni ci si potrebbe discostare. Ma, a quanto è stato riferito, Papa Francesco non fa altro che continuare un’abitudine che aveva quando era Arcivescovo di Buenos Aires (il che lascia presumere che intenda ripetere il gesto ogni anno). È chiaro che il problema non sorge solo ora che Bergoglio è diventato Papa, ma esisteva già quando era Arcivescovo. Posso supporre il ragionamento che avrà fatto: “Ho già celebrato questa mattina la Messa del crisma con tutto il mio clero; questa sera la Messa in Cena Domini sarà celebrata nelle diverse parrocchie; con chi celebro io in cattedrale? Magari non ci saranno neppure i seminaristi perché mandati ad aiutare nelle rispettive parrocchie. Quindi me ne vado a celebrar Messa ai carcerati (o agli ammalati o agli anziani) e cosí faccio anche un’opera di misericordia”. Un ragionamento abbastanza comprensibile, addirittura encomiabile, ma che rischia di “smontare” tutto d’un tratto quanto il Concilio aveva autorevolmente dichiarato:

«Il Vescovo deve essere considerato come il grande sacerdote del suo gregge: da lui deriva e dipende in certo modo la vita dei suoi fedeli in Cristo. Perciò tutti devono dare la piú grande importanza alla vita liturgica della diocesi che si svolge intorno al Vescovo, principalmente nella chiesa cattedrale, convinti che c’è una speciale manifestazione della Chiesa nella partecipazione piena e attiva di tutto il popolo santo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche, soprattutto alla medesima Eucaristia, alla medesima preghiera, al medesimo altare cui presiede il Vescovo circondato dai suoi sacerdoti e ministri» (Sacrosanctum Concilium, n. 41).

Un testo che viene ripreso dal Cerimoniale, che aggiunge:

«Dunque le sacre celebrazioni presiedute dal Vescovo, manifestano il mistero della Chiesa a cui è presente Cristo; perciò non sono un semplice apparato di cerimonie … In tempi determinati e nei giorni piú importanti dell’anno liturgico si preveda questa piena manifestazione della Chiesa particolare a cui siano invitati il popolo proveniente dalle diverse parti della diocesi e, per quanto sarà possibile, i presbiteri» (nn. 12-13).

«La principale manifestazione della Chiesa locale si ha quando il Vescovo, come grande sacerdote del suo gregge, celebra l’Eucaristia soprattutto nella chiesa cattedrale, circondato dal suo presbiterio e dai ministri, con la partecipazione piena e attiva di tutto il popolo santo di Dio. – Questa Messa, chiamata stazionale, manifesta l’unità della Chiesa locale e la diversità dei ministeri attorno al Vescovo e alla sacra Eucaristia. – Quindi ad essa siano convocati quanti piú fedeli è possibile, i presbiteri concelebrino con il Vescovo, i diaconi prestino il loro servizio, gli accoliti e i lettori esercitino le loro funzioni» (n. 119).

«Questa forma di Messa sia osservata soprattutto nelle maggiori solennità dell’anno liturgico, quando il Vescovo confeziona il sacro crisma e nella Messa vespertina in Cena Domini, nelle celebrazioni del santo fondatore della Chiesa locale o del patrono della diocesi, nel giorno anniversario dell’ordinazione del Vescovo, nelle grandi assemblee del popolo cristiano, nella visita pastorale» (n. 120).

Nel comunicato con cui si informa della decisione di Papa Francesco, si aggiunge: «Com’è noto, la Messa della Cena del Signore è caratterizzata dall’annuncio del comandamento dell’amore e dal gesto della lavanda dei piedi» (21 marzo 2013). Anche in questo caso il Cerimoniale dei Vescovi appare piú completo e preciso:

«Con questa Messa dunque si fa memoria della istituzione dell’Eucaristia, o memoriale della Pasqua del Signore, con la quale si rende perennemente presente tra di noi, sotto i segni del sacramento, il sacrificio della nuova alleanza; si fa ugualmente memoria della istituzione del sacerdozio, con il quale si rende presente nel mondo la missione e il sacrificio di Cristo; infine si fa memoria dell’amore con cui il Signore ci ha amati fino alla morte. Il Vescovo si preoccupi di proporre opportunamente ai fedeli tutte queste verità mediante il ministero della parola, affinché possano penetrare piú profondamente con la loro pietà in cosí grandi misteri e possano viverli piú intensamente nella vita concreta» (n. 297).

La lavanda dei piedi è certamente un momento significativo della celebrazione del giovedí santo, ma sarebbe un errore considerarlo il suo elemento essenziale. Tanto è vero che non è un rito obbligatorio: esso viene compiuto solo «dove motivi pastorali lo consigliano» (n. 301). Purtroppo, negli ultimi anni, in diversi luoghi, esso è stato caricato di significati che esorbitano dal suo valore originario.

Qualcuno dirà che sto facendo di un’inezia una montagna; qualcuno mi accuserà di pignoleria, se non addirittura di rubricismo o di legalismo; qualcuno sicuramente scomoderà anche i farisei, che accusavano Gesú di non osservare la legge quando guariva di sabato; qualcuno dirà che voglio insegnare il mestiere al Papa. Ciascuno dica quel che vuole. Nessuno però può impedirmi di pensare che certe decisioni, apparentemente innocue, potrebbero avere conseguenze devastanti:
a) innanzi tutto, disattendendo le norme esistenti, anche quelle che potrebbero apparire secondarie, si rischia di mettere in discussione alcuni valori fondamentali, che il Concilio ha rimesso in luce e ha voluto che divenissero patrimonio comune della Chiesa;
b) in secondo luogo, potrebbe passare l’idea che le norme ci sono, sí, ma non è poi cosí importante rispettarle: se il Papa ritiene possibile trascurarle, significa che non sono poi cosí importanti; e se lo fa lui, perché non potrei fare io altrettanto?;
c) inoltre si potrebbe dare l’impressione che non esista alcuna norma oggettiva e stabile, valida per tutti e per sempre, ma che tutto dipenda esclusivamente dalla discrezionalità del responsabile di turno;
d) infine c’è il rischio che il relativismo, tanto osteggiato a parole nella società, diventi di fatto la norma suprema anche all’interno della Chiesa.

domenica 17 marzo 2013

“Viva il Papa!”


Forse qualcuno dei miei lettori stava già pensando che fossi tornato in letargo. In effetti, “una rondine non fa primavera”, ma in questo caso il mio silenzio è stato causato semplicemente da mancanza di tempo materiale. D’altronde, dopo una inattività di quasi due anni, non è facile tornare a scrivere con regolarità.

Qualcuno mi ha chiesto di dire qualcosa a proposito dell’elezione del nuovo Papa. Beh, sarei ipocrita se dicessi di aver sprizzato gioia nel momento in cui il Card. Tauran ha dato l’annuncio. Personalmente avrei preferito il Card. Scola, che stimo, o il Card. Tagle, che conosco. Sentire che era stato eletto il Card. Bergoglio è stata sicuramente una sorpresa. Talvolta le sorprese possono essere accolte gioiosamente (ed è ciò che è avvenuto per la maggior parte dei fedeli). Nel mio caso questo non è avvenuto, non perché avessi qualcosa contro il Card. Bergoglio, che non conoscevo, ma semplicemente perché condizionato da ciò che si era detto sul suo conto, a proposito del precedente conclave: sarebbe stato lui il candidato del partito anti-Ratzinger, quello per intenderci guidato dal Card. Martini. Ebbene, il fatto di sapere che era stato eletto appunto l’«anti-Ratzinger» mi ha dato lí per lí l’impressione di una deliberata scelta polemica dei Cardinali contro il precedente Pontefice. È vero che questa impressione è stata immediatamente smentita dallo stesso neo-eletto; però è altrettanto vero che tutta una serie di piccoli dettagli, astutamente amplificati dai media, sembravano confermare quella prima impressione: il rifiuto di un certo abbigliamento, il ritorno a una liturgia pre-benedettiana, ecc.

In questi casi, però, è bene non lasciarsi condizionare troppo dalle prime impressioni, dalle reazioni istintive, e cercare di riflettere e considerare le cose con una certa razionalità. Innanzi tutto, è bene non farsi condizionare dai media, che ci presentano solo certi aspetti, e lo fanno unicamente per provocare in noi determinate reazioni. Che senso ha, per esempio, insistere nel mostrarci le scarpe nere del Papa, se non per convogliare il messaggio: Benedetto XVI usava scarpe Prada e quindi era antievangelico; Francesco, al contrario, è un Papa realmente povero. Non so se avete notato come si siano volutamente messe in giro frasi, attribuite al neo-eletto Pontefice (se vere o false sinceramente non saprei), che hanno rallegrato molti, ma hanno ferito altri: Papa Bergoglio avrebbe detto a Mons. Marini, che lo stata aiutando a vestirsi, a proposito della mozzetta: «Questa se la metta lei! È finito il tempo delle carnevalate!»; l’indomani, a Santa Maria Maggiore, visto il Card. Law, Arciprete emerito della basilica, avrebbe intimato: «Allontanatelo dalla basilica!». Non credo che, cosí facendo, si renda un buon servizio al nuovo Papa.

In secondo luogo, dobbiamo liberarci dai nostri pregiudizi. Non possiamo giudicare le persone dopo pochi minuti che le abbiamo incontrate: diamo loro almeno il tempo di presentarsi e farsi conoscere. Di per sé non dovremmo mai giudicare nessuno, ma se proprio smaniamo dal farlo, aspettiamo almeno che uno incominci ad agire, e poi giudichiamo il suo operato (mai le sue intenzioni!). Questo in qualsiasi senso: sia in bene che in male. Certe esaltazioni acritiche sarebbe meglio lasciarle da parte: a Papa Francesco piace uno stile informale? Benissimo, ha tutto il diritto di usarlo (anche perché è caratteristico di certi paesi); ma non si parli di una svolta nella storia della Chiesa, quasi che basti saldare il conto in albergo per salvare la Chiesa. Ben venga la semplicità, se questa aiuterà qualcuno a riaccostarsi alla Chiesa. Ma, per favore, non identifichiamo automaticamente lo stile informale con l’umiltà. Si può essere umili anche sottomettendosi a un cerimoniere che ti mette indosso una mozzetta di velluto con l’ermellino. Lasciatemi, per un attimo, mettermi sullo stesso piano di certi acuti “osservatori”: l’attuale Pontefice, sotto la semplice talare bianca, ha sempre fatto uso finora della camicia con i polsini e i gemelli; Papa Ratzinger, sotto la talare bianca, il rocchetto e la mozzetta, spesso indossava una semplice maglia con le maniche lunghe.

Un aspetto che ha mandato in visibilio le folle è stata la scelta del nome. Certo, il Santo Padre può scegliere il nome che vuole. Non si può accusarlo di aver rotto con la tradizione: gli ultimi Papi hanno tutti scelto un nome piú o meno originale: Roncalli ha scelto un nome che non si usava piú dal Trecento; Montini, dal Seicento; Luciani ha addirittura adottato un doppio nome (cosa mai avvenuta prima nella storia della Chiesa); quindi, liberissimo Bergoglio di scegliere il nome di Francesco. È chiaro però che ogni nome è un programma; lo stesso Bergoglio lo ha spiegato ieri ai giornalisti: “Francesco”, significa povertà, pace, amore alla natura. Un programma condivisibilissimo, a patto che non si trasformi in ideologia: pauperismo, pacifismo, ecologismo. Spero di cuore che il nuovo Papa incarni il vero San Francesco, non il surrogato che ci viene solitamente proposto dai media (e spesso dagli stessi Francescani). Personalmente, di San Francesco io sottolineerei soprattutto la vocazione: «Va’ e ripara la mia Chiesa!».

Naturalmente, come non mi piacciono i facili entusiasmi, ancor meno mi piacciono le stroncature senza appello, da una parte e dall’altra. Mi hanno dato estremamente noia (ma non mi hanno meravigliato piú di tanto) i tentativi di coinvolgere Bergoglio con la dittatura militare del Generale Videla, come pure la ridicola accusa di misoginia («Le donne non sono fatte per governare!»). D’altra parte, mi lasciano di stucco le reazioni scomposte di alcuni tradizionalisti: dopo aver per anni accusato i fratelli di fede di disobbedienza al Papa, perché non si adeguavano al suo stile celebrativo, tutto d’un tratto, non appena il Papa è cambiato, hanno incominciato a offendere il nuovo Pontefice, basandosi esclusivamente su quegli elementi esteriori intenzionalmente sottolineati dai media, proprio per mettere in evidenza la discontinuità dell’attuale pontificato con quello precedente.

Certo, una qualche discontinuità nelle forme e nello stile esteriore non può essere negata; ma ciò significa reale rottura di Francesco I con Benedetto XVI e con la tradizione della Chiesa? Diciamo la verità, almeno per il momento, tutto si riduce a questioni piuttosto marginali, come il modo di abbigliarsi o di celebrare. Quanto al primo aspetto, abbiamo già detto; quanto al secondo, non credo proprio che Papa Francesco voglia distruggere la liturgia. Bisogna tener conto che è un gesuita; e chi conosce anche solo un po’ i gesuiti sa che non sono dei grandi liturgisti, non per partito preso, ma per formazione, direi per costituzione. Si direbbe che per loro il movimento liturgico e il Vaticano II non siano mai esistiti; fondamentalmente, essi sono rimasti sempre un po’ tridentini. Del resto, basta prendere gli Esercizi spirituali per rendersene conto: sembrerebbe che per Sant’Ignazio l’esame di coscienza fosse piú importante della partecipazione alla Messa. Se si voleva un Papa liturgista, allora bisognava eleggere un benedettino, non certo un gesuita. I gesuiti sono molto piú attenti alla spiritualità che non alla liturgia: essi sono dei veri “contemplativi nell’azione”, per cui possiamo aspettarci da Papa Bergoglio un grande aiuto per la nostra vita spirituale.

Sono convinto che Papa Francesco riserverà a tutti delle belle sorprese (certo non quelle anticipate dai media). Quando furono eletti Giovanni Paolo II e Benedetto XVI provai una grande gioia e nutrivo grandi attese, che però in qualche caso furono successivamente deluse. Questa volta, come detto, all’Habemus Papam non ho sperimentato lo stesso entusiasmo; spero quindi che le soddisfazioni vengano in seguito. Ma, in fondo, anche se non venissero, non cambierebbe nulla: un Papa non viene eletto per soddisfare le nostre attese, ma per confermarci nella fede e servire la Chiesa. In questo momento non ci viene chiesto né di osannare il Papa né di criticarlo; ci viene chiesto semplicemente di sottometterci a lui («Subesse Romano Pontifici … omnino esse de necessitate salutis», Bonifacio VIII, bolla Unam sanctam), di pregare per lui e di «rimanere in perfetta tranquillità … [tenendo] presente che solo Gesú Cristo governa la sua Chiesa» (Rosmini, Massime di perfezione cristiana, III massima).

Anche un eventuale scarso feeling con il nuovo Pontefice potrebbe avere effetti tutto sommato benefici, perché ci costringerebbe a non fermarci alla sua persona, ma ad andare oltre, a colui che egli rappresenta; ci costringerebbe a distinguere fra la persona e l’ufficio che essa ricopre. Può essere utile ricordare in proposito quanto si racconta di Don Bosco; sembrerebbe che si riferisca ai nostri giorni:

A Torino giungevano le notizie di Roma ed anche qui continuavano ad ogni occasione le grida frenetiche, ostinate di “Viva Pio IX!”. Mons. Fransoni [Arcivescovo di Torino] però aveva compreso tra i primi che sotto quelle esagerate espressioni di entusiasmo si celava l’artificio delle sette, e sollecitato dal Papa a muovere i fedeli in aiuto degli Irlandesi che lottavano contro la fame, il 7 giugno 1847 scriveva in una sua lettera pastorale: «Quella essere un mezzo assai acconcio di mostrare ossequio al Pontefice, e perciò averglisi a dar plauso. Non come quei tali che applaudono a Pio IX, non per quello che è, ma per quello che vorrebbero Egli fosse. Doversi ancora riflettere, che non il battere fragoroso di palma a palma, né l’incomposto acclamar tumultuoso, sono gli applausi che possono a Lui tornar graditi, bensí l’ascoltarne docilmente gli avvisi, e il pronto eseguirne, non che i comandi, gli inviti». Don Bosco non la pensava diversamente dal suo Arcivescovo. Naturalmente anche all’Oratorio era un gridare a tutta gola di viva e di osanna al gran Pontefice; tanto piú che Don Bosco parlava sempre del Papa colla massima stima; ripeteva frequentemente essere necessario di stare uniti al Papa perché egli era quell’anello che unisce i fedeli a Dio, e preconizzava fatali cadute e castighi a quelli che presumevano osteggiare o censurare anche menomamente la Santa Sede; e tanto era l’amore che sapeva infondere verso di questa ne’ suoi giovani, che sentivansi disposti ad esserle sempre obbedienti e fedeli e a difenderla anche a costo della vita. I giovani adunque ripetevano: “Evviva Pio IX!”; ma con meraviglia intesero Don Bosco che cercava di cambiar loro le parole in bocca: «Non gridate “Viva Pio IX!”, ma “Viva il Papa!”». «Ma perché, gli domandarono, Ella vuole che gridiamo “Viva il Papa!”? Pio IX non è appunto il Papa?». «Avete ragione, replicava Don Bosco: ma voi non vedete piú in là del senso naturale; vi è certa gente che vuol separare il Sovrano di Roma dal Pontefice, l’uomo dalla sua divina dignità. Si loda la persona, ma non veggo che si voglia prestar riverenza alla dignità di cui è rivestita. Dunque, se vogliamo metterci al sicuro, gridiamo “Viva il Papa!”». E tutti i giovani ripetevano: “Viva il Papa!” (Memorie biografiche, vol. III, cap. 21).

domenica 10 marzo 2013

Papa emerito?


Dopo venti mesi di letargo, il Querciolino errante (che da tre anni si è pressoché sedentarizzato) torna a far sentire (chissà se solo per una volta o in maniera piú assidua) la sua voce. Come mai, direte voi? Se neppure tanti eventi accaduti in questi quasi due anni lo avevano ridestato dal sonno, come mai proprio ora si rifà vivo?

Stiamo vivendo un momento davvero storico, con la rinuncia di Benedetto XVI al pontificato e, ora, con i meccanismi che si sono messi in moto per l’elezione del nuovo Papa. Si è scritto tanto in quest’ultimo mese a proposito di tali eventi: molte delle cose dette sono interessanti, altre meno. In ogni caso c’è stato, e continua a esserci, un vivace dibattito. Che bisogno c’era, allora, di aggiungere un’altra voce al coro già cosí numeroso che si sta esibendo in questi giorni?

Se intervengo, è solo per aggiungere qualche riflessione, che mi sembra non sia stata ancora fatta. Il problema che vorrei affrontare è se la rinuncia operata da Benedetto XVI — certamente una novità, un unicum nella storia della Chiesa (i casi precedenti, è stato fatto autorevolmente notare, non possono in alcun modo essere paragonati col caso presente) — costituisca un atto “rivoluzionario”, una svolta radicale, una rottura con la tradizione della Chiesa, o se non sia piuttosto qualcosa che si situa, nonostante l’oggettiva novità, in continuità con il passato, qualcosa che è sempre stato possibile, ancorché praticamente finora mai avvenuto.

Certamente si potrà discutere sull’opportunità di un gesto come quello di Benedetto XVI: ciascuno di noi vede le cose dal proprio punto di vista e quindi è portato a esprimere una valutazione se fosse opportuno o no procedere alla rinuncia al pontificato. Bisognerà però ammettere che, ponendosi su questo piano, si potranno individuare infinite motivazioni sia a favore sia contro la rinuncia. Mi limiterò soltanto a due argomenti, entrambi validi, che possono giustificare l’opportunità o la non-opportunità della rinuncia. Fra i tanti motivi, che sono stati portati per giustificare il gesto di Benedetto XVI, il più interessante, nella sua banalità, mi è parso quello del Card. Georges Cottier: «Oggi si vive piú a lungo … Il vigore e la lucidità però possono non esserci piú». Al contrario, la difficoltà piú seria contro la rinuncia mi sembra essere il rischio di relativismo, insito nelle dimissioni di un Papa. Però capite bene che, se andiamo avanti su questa strada, troveremo sempre innumerevoli argomenti a favore e innumerevoli argomenti contro la rinuncia, senza mai trovare l’argomento risolutivo. Per cui dobbiamo rassegnarci e accettare, con assoluto rispetto, la scelta compiuta, di fronte a Dio, da Benedetto XVI. Nessuno di noi può violare la coscienza di un uomo, tanto piú se si tratta della coscienza del Papa. È totalmente fuori luogo esprimere giudizi sul suo gesto, tanto piú i giudizi estremi, sia in senso positivo («Un gesto coraggioso!») sia in senso negativo («Un atto di viltà!»).

Se però dal livello dell’opportunità passiamo a quello della legittimità, mi pare che il discorso cambi completamente. Se ci chiediamo se quanto è avvenuto sia legittimo, cioè giuridicamente possibile, credo che non ci debbano essere dubbi: è tutto (sottolineo “tutto”, volendo comprendere anche i dettagli) pienamente legittimo. La possibilità di rinuncia è prevista dal can. 332 § 2: «Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti». Si badi bene che tale possibilità non viene in alcun modo limitata: non si parla neppure, come in altri casi, di “gravi motivi”. Le uniche condizioni previste per la validità della rinuncia sono la sua piena libertà e la sua debita manifestazione (condizioni che, nella fattispecie, sono state pienamente rispettate). Questo dovrebbe rassicurarci e liberarci completamente dal sospetto che, con l’imminente conclave, si possa procedere all’elezione di un “antipapa”.

Se sulla legittimità giuridica della rinuncia non ci piove, visto che è espressamente contemplata dal diritto canonico, può dirsi altrettanto delle decisioni prese riguardo ai risvolti pratici della rinuncia, risvolti non previsti dal diritto, trattandosi di una situazione totalmente nuova? Mi riferisco al fatto che Benedetto XVI abbia deciso di continuare a usare tale nome, di adottare per sé il titolo inedito di “Papa emerito” o “Romano Pontefice emerito”, di conservare l’appellativo di “Sua Santità” e di continuare a indossare la veste bianca. Quantunque su questi aspetti non esista alcun punto di riferimento oggettivo, mi sembra che, anche in questi casi, ci si sia mossi nella piú completa correttezza giuridica.

La questione centrale è quella del titolo di “Papa emerito”, contestato da alcuni con la sorprendente motivazione che… non può esistere un Papa emerito: o si è Papa o non lo si è. Infatti. Ma un Papa emerito non è piú Papa; è soltanto un Papa… emerito. Che cosa significa “emerito”? Lo spiega il can. 185: «A colui che perde l’ufficio per raggiunti limiti d’età o per rinuncia accettata, può essere conferito il titolo di emerito». Si noti: non si sta parlando dei Vescovi (a cui si riferisce il can. 402), ma della “perdita dell’ufficio ecclesiastico”, di un qualsiasi ufficio ecclesiastico. Il supremo pontificato è o non è un ufficio ecclesiastico? Sí. Benedetto XVI, con la sua rinuncia, ha perso o non ha perso il suo ufficio? Sí. Può o non può assumere il titolo di “Papa emerito”? A norma del can. 185, si direbbe proprio di sí. Tale titolo non significa che Benedetto XVI sia ancora Papa, ma solo che è stato Papa (e questo nessuno può negarlo).

È stata fatta un’analogia con i Vescovi, e si è detto che il Vescovo emerito continua a essere Vescovo. Certo, ma il suo titolo non è, semplicemente, “Vescovo emerito”, bensí Vescovo emerito di una determinata sede: «Il Vescovo, la cui rinuncia all’ufficio sia stata accettata, mantiene il titolo di emerito della sua diocesi» (can. 402 § 1). L’aggettivo “emerito” non si riferisce propriamente a “Vescovo”, ma all’ufficio che quel Vescovo aveva di essere pastore di una determinata diocesi.

Qualcuno (p. es. Padre Gianfranco Ghirlanda su La Civiltà Cattolica) aveva suggerito di adottare, appunto, il titolo di “Vescovo emerito di Roma”. Con tutto il rispetto per chi ha sostenuto tale tesi, chiedo: qual è il titolo del Vescovo di Roma? “Papa”. Se, dunque, si può dire (e certamente si può dire) “Vescovo emerito di Roma”, perché non si potrebbe dire “Papa emerito”? A maggior ragione, si potrà usare l’espressione “Romano Pontefice emerito” (si noti che non si è mai parlato di “Sommo Pontefice emerito”), dal momento che Romanus Pontifex non è altro che il corrispondente latino di “Vescovo di Roma”.

Ma il mio sospetto è che, dietro questa querelle canonica, si nasconda un’errata visione teologica del ministero petrino. Sembrerebbe di capire che, secondo alcuni, il Successore di Pietro abbia un duplice ufficio, quello di Vescovo di Roma e quello di Papa, intendendo tale termine come sinonimo di “pastore supremo della Chiesa universale”, quasi che, per ipotesi, uno potesse esercitare soltanto uno dei due uffici disgiunto dall’altro. Tutto ciò è semplicemente assurdo. È il Vescovo di Roma che, in quanto tale, esercita il primato su tutta la Chiesa. Il termine “Papa” non sta a indicare un ufficio ulteriore rispetto a quello di Vescovo di Roma, ma è semplicemente il titolo proprio del Vescovo di Roma.

Qualcuno ha contestato anche il mantenimento del nome “Benedetto XVI”, sostenendo che bisognerebbe tornare a chiamare Benedetto XVI “Cardinale Ratzinger”, dando per scontato che un Papa dimissionario torni a essere un Cardinale. E dove sta scritto? È vero che questo è storicamente avvenuto, ma ciò non significa che debba automaticamente avvenire. Il Cardinale Ratzinger, divenendo Papa, ha cessato di essere membro del Sacro Collegio; per rientrarvi a farne parte, dovrebbe essere di nuovo creato Cardinale dal suo successore; ma mi sembrerebbe una cosa del tutto fuori luogo. Non vedo dove sia lo scandalo se, una volta rinunciato al suo ufficio, Benedetto XVI mantiene il nome assunto il giorno dell’elezione al pontificato. Un re, quando abdica, non conserva forse il nome che aveva quando regnava?

Il resto (l’appellativo “Sua Santità”, l’abito bianco) viene da sé. È normale che chi ha goduto di un certo titolo, lo mantenga anche dopo la perdita dell’ufficio. Nel mio Ordine religioso il Superiore generale ha diritto a essere chiamato “Reverendissimo”, titolo che conserva per il resto dei suoi giorni, anche dopo aver terminato il suo mandato. Del resto, abbiamo incominciato a chiamare “Santità” anche alcuni Patriarchi orientali non cattolici; e non dovremmo chiamare “Santità” il Papa emerito? Sulla talare bianca non mi sembra che possano esserci assolutamente problemi: anch’io, quando ero in missione, ne facevo uso (e continuo a farne uso nella foto di questo blog, proprio perché è stata un’esperienza che ha segnato la mia vita). Anzi, non vedrei nulla di strano (per quanto non credo che potrà mai avvenire) se Benedetto XVI assistesse, in abito corale, a qualche celebrazione del nuovo Pontefice, cosí come accade normalmente nelle diocesi con i rispettivi Vescovi emeriti.

Vorrei terminare con una riflessione. Penso che la rinuncia di Benedetto XVI al pontificato ci costringa a un approfondimento del ruolo del Papa. Ci aiuta lui stesso a farlo. Nell’ultima udienza generale ha affermato: «Il “sempre” è anche un “per sempre” — non c’è piú un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto piú la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per cosí dire, nel recinto di San Pietro» (27 febbraio 2013). Se è vero che, con la sua rinuncia, Benedetto XVI ha perso qualsiasi tipo di giurisdizione, ciò non significa che, con ciò, è tornato a essere un semplice fedele o, se vogliamo, un semplice Vescovo in pensione. Sembrerebbe di capire che il ministero petrino non si esaurisca nell’esercizio dell’autorità, ma possieda una dimensione spirituale (il “servizio della preghiera”), che continua al di là della rinuncia: è ciò che Benedetto XVI vuole esprimere con il suo ritirarsi in clausura, con il suo “salire sul monte” a pregare per la Chiesa. La Chiesa la si serve, sí, governandola, ma la si serve anche, e forse soprattutto, pregando per essa. Lo stesso luogo, da lui scelto, per espletare questo servizio (“nel recinto di San Pietro”), sta a indicare la continuità fra il prima e il dopo la rinuncia. Forse il titolo di “Papa emerito” vuole esprimere anche tale continuità.